Paradiso e inferno è un libro fatto di contrasti, come lo è l’Islanda che Jòn Kalmann Stefanssòn, con linguaggio poetico e sorprendente, dipinge in questo primo libro della Trilogia del ragazzo, pubblicata in Italia da Iperborea. Il paesaggio è infatti più di uno sfondo, è un personaggio, forse protagonista, come deve esserlo in un luogo come questa terra dove, nel tempo in cui la storia è ambientata (vagamente identificabile con la fine del XIX secolo), la vita dei suoi abitanti era una lotta per sopravvivere a condizioni estreme. Tanto che il precario equilibrio tra vita e morte diventa la nota dominante di tutto il racconto.

“Non esiste quasi niente di più bello del mare nelle giornate serene o nelle notti terse, quando anche lui sogna e la luna è il suo sogno. Ma il mare non è per niente bello e lo odiamo più di qualsiasi altra cosa quando le onde si alzano anche di dieci metri sopra la barca, quando i frangenti la travolgono e il mare ci beve come miseri cuccioli.”

Tutto è contrapposizione: luce e tenebre, neve e roccia, gli abissi del mare e le vette delle montagne, anche i volti delle persone a volte, pelle candida e capelli corvini. E poi la vita e la morte, la speranza e l’incertezza. Il paradiso e l’inferno. Il paesaggio, coi suoi contrasti, è personaggio e condiziona la vita e i sentimenti degli uomini così come altre volte ne è riflesso o punto di riferimento. È una bufera che il protagonista attraversa per entrare nella vita, è il mare che dà vita e dà morte, è le montagne con cui ci si orienta dal mare, è la luna su cui si incontrano gli occhi di due innamorati distanti, è le tenebre della lunga notte polare – e dei dubbi, delle paure, della morte – è il candore freddo e accecante della neve – piume di angeli – e la luce di un Aprile nascente a nuova vita che arriva con la sua valigetta del pronto soccorso e cerca di curare le ferite dell’inverno.

Non c’è niente da vedere in Islanda se non le montagne, le cascate, i poggi erbosi e questa luce capace di entrarti dentro e di trasformarti in un poeta”.

Si svolge in un fiordo della più estrema Islanda nordoccidentale la storia del ragazzo, unico personaggio senza un nome, che cerca un senso per la propria vita, raccontata da una voce collettiva che ricorda i cori del teatro greco. La voce è quella dei morti, che ripescano storie di vivi di cui ormai rimane solo un nome su una croce, per riscattarle dal buco nero dell’oblio e consegnarcele. Perché “può anche darsi che, chissà, magari sul cammino trovino intanto qualche risposta e che salvino anche noi, prima che sia troppo tardi”.

Il racconto si apre sul ragazzo che segue il suo amico Bardur nell’ambiente ostile di un marzo islandese, in cui la terra è coperta dalla neve e il freddo penetra “nel più profondo del cuore”. Camminano per sfuggire alle tenebre. Si dirigono alle baracche da cui partiranno per uscire in mare per la pesca del merluzzo. Lui è un ragazzo dal passato duro, che ha perso la famiglia e deve darsi da fare per sopravvivere. Ma ha dei sogni, vuole realizzare qualcosa nella vita, leggere libri e arrivare all’essenza delle cose – o scoprire se c’è un’essenza – “ma a volte è difficile riflettere e leggere dopo un’intera giornata estenuante passata a remare”.

Bardur è amico, guida e conforto. Nelle loro bisacce ci sono cibo e libri, “quello che rende la vita degna di essere vissuta”, ad esclusione dell’amore e dei sogni che non si possono mettere nella bisaccia. Ma una volta in mare il ragazzo perderà il suo amico a causa dell’amore sconfinato che Bardur ha per la poesia.

Affranto dal dolore e dall’incertezza, il ragazzo decide di allontanarsi dal mare e restituire il libro colpevole della morte di Bardur, Il paradiso perduto di Milton, al proprietario, un vecchio comandante cieco che si trova al Villaggio. Prende le sue cose e dalla baracca sul mare, dove lascia il suo amico morto, esce in quel tempo da lupi, o piuttosto entra, dice il narratore. Come in un canone fiabesco inizia infatti una viaggio nel buio, nel freddo e nella neve, cammina e cammina e cammina, incerto di sapere se volere la vita o la morte. È un cammino in cui affronta il senso di colpa perché lui è ancora vivo e il suo amico no, durante il quale la vita, quasi con prepotenza, cerca di scalzare la morte e il dolore per la morte con le piccole consolazioni del corpo e dell’animo che il ragazzo non si sente in diritto di provare. È un cammino in cui lotta contro la paura di dimenticare l’amico perché quando uno muore resta solo il ricordo; lotta contro il senso di tradimento nei confronti del dolore che pensa dovrebbe provare anche quando qualcosa gli procura un po’ di gioia o conforto.

È un sollievo pisciare, sospira di soddisfazione e di nuovo tradisce la sua infelicità per la terza volta in poco tempo.

Quando arriva al Villaggio è il primo giorno del mese di aprile, è passato un solo giorno ma dentro di lui sembra passata una stagione perché “il tempo ha molte facce diverse e raramente l’orologio segna quello che passa dentro di noi”. È aprile, parola piena di luce, e davanti a lui si apre una nuova vita che non sa se ha voglia di affrontare: quella vissuta fino a quel momento appartiene al passato e ora, davanti a lui, ci sono solo incertezze, una vita in cui ha perso il suo migliore amico, “l’unica cosa bella che si può trovare in questa vita d’inferno”. Ancora in bilico tra la voglia di vivere e la voglia di morire, incontra alcuni abitanti del villaggio, vite come lampioni su una strada, fatte di pochi momenti luminosi separati da giorni di tenebra, e una trinità profana che si prende inaspettatamente cura di lui. E di nuovo la vita sgomita per avere la meglio perché la vita, in fondo, chiede di essere vissuta, anche se vivere è più complicato che morire.

“Vivere è un percorso lungo e complesso, vivere è fare domande.”

E di domande è disseminato tutto il romanzo: se le pongono le voci dei morti che raccontano la storia, se le pone il ragazzo, se le pongono i personaggi che stanno alle baracche e al Villaggio. Sono domande sul senso della vita e della morte, sulla ricerca della consolazione e della felicità, su Dio. Sono le domande del ragazzo che rivela, davanti allo sguardo di Raghneidur, “Non so chi sono. Non so perché esisto. E non son nemmeno sicuro di avere davanti a me abbastanza tempo per scoprirlo.” Domande per cui si cercano per tutta la vita risposte e pensi che dopo la morte le troverai, ma i morti ci raccontano che loro sono morti e non è successo niente, tutto è come prima, solo sono morti e risposte non ne hanno. Continuano a interrogarsi “ma non sembra esistere alcuna risposta, probabilmente le risposte le hanno solo i preti, i politici e i pubblicitari”. Eppure ci raccontano storie prima che cadano nell’oblio, ce le raccontano dalle tenebre perché non hanno risposte, come Milton dalle tenebre della cecità scrisse il Paradiso Perduto, che un vecchio comandante cieco consegna a Bardur. Ci consegnano le loro parole, “queste squadre di soccorritori smarriti e dispersi, insicuri del loro ruolo, tutte le bussole rotte, le carte geografiche strappate o superate, ma tu accettale comunque. Poi, staremo a vedere.” Già, perché in realtà di risposte sembra disseminato tutto il romanzo, sta a noi trovarle tra queste parole, per capire cosa siano l’inferno e il paradiso e forse, in fondo, la domanda che tutto riassume è una: “Che la morte sia la perdita del paradiso?” e la risposta alla domanda “Cos’è la vita?” è implicita nella domanda stessa.

Ma anche le parole non sono esentate dal gioco di contrasti che pervade tutto il romanzo, perché “metti a rischio la vita, a leggere poesie”, come succede a Bardur che muore perché pensava ai versi di Milton, quei versi che quando li legge “il cuore si mette a battere”. La poesia dà la vita ma può anche procurare la morte? Sì, perché le parole non servono in mare aperto – il merluzzo se ne infischia delle parole – e hanno scarsa tenuta contro il vento e allora “forse non abbiamo bisogno delle parole per sopravvivere, ne abbiamo bisogno per vivere”. E quello che il ragazzo deve fare è vivere – fu l’ultima parola inviatagli dalla madre morente: vivi! – ma sapendo che “le parole da sole non bastano e finiamo di perderci nelle lande desolate della vita se non abbiamo nient’altro che una penna cui aggrapparci.” L’importante è non smettere di porsi domande.

Jòn Kalmann Stefanssòn (Rejkyavik, 1963) nasce come poeta e indubbiamente il suo linguaggio e la sua potenza evocativa tradiscono questa origine. Ma si dedica presto alla narrativa e nel 2005 vince il Premio Letterario Islandese con Luce d’estate: ed è subito notte. Paradiso e Inferno è stato finalista nel 2012 al Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane.

Elisa Bedoni