Bruno Arpaia ha paura. E come dargli torto? Siamo solo agli inizi di un cambiamento climatico, il riscaldamento globale, ma non lo sappiamo o forse non lo vogliamo sapere, eppure sta già accadendo. I migranti cosiddetti climatici sono una realtà, come i migranti richiedenti asilo per le più svariate ragioni, che possiamo riassumere in un’unica parola: sopravvivenza. Diverse volte in Qualcosa, là fuori, romanzo di “speculativity fiction” – così lo definisce l’autore – si incontra questa frase: “o noi o loro”. Frase con la quale molte persone oggigiorno devono rapportarsi, purtroppo. Quante saranno le persone che in futuro saranno spinte a fare scelte obbligate? Arpaia non vuole essere definito apocalittico, perché altrimenti non avrebbe scritto questo romanzo. Il lettore deve essere informato sull’argomento “cambiamento climatico” e cosciente degli “scenari scientificamente molto probabili che il futuro gli riserva se non si farà nulla”. La scienza, e solo in secondo piano la fantascienza, è la protagonista del romanzo, insieme alla storia delle vicende di un gruppo di umani coinvolti in un esodo che tanto ricorda quelli di cui noi siamo, per ora, solo spettatori. Una fuga da una realtà diventata invivibile e senza futuro è la trama del libro, che si divide in due storie che si rincorrono nel tempo.

Il protagonista è Livio Delmastro, neuroscienziato napoletano, già attivista a 19 anni e dirigente provinciale di un gruppo di ambientalisti radicali. Livio prima e dopo: Livio laureato che si trasferisce in America con la sua compagna Leila, figlia di rifugiati siriani, nel Campus di Stanford in California nel 2038; Livio in fuga da Napoli nel 2070 verso la salvezza. Le due narrazioni si alternano fino al punto in cui si uniscono in un unico e tragico epilogo. L’ambiente del Campus californiano è dipinto come una realtà piacevole dove vivere è esaltante e stimolante per due neolaureati alla loro prima esperienza nel mondo del lavoro, anche se la California sta già subendo i primi effetti del cambiamento climatico con innalzamento del livello delle acque, siccità, scarsità di risorse alimentari, esodi in massa alla frontiera col Messico e conseguente instabilità sociale. Ripercussioni si rilevano in buona parte del pianeta, avvalorate dalla teoria delle catastrofi; anche Napoli è colpita da nubifragi e maree che sommergono il porto, le vie adiacenti, la metropolitana, con palazzi invasi e sommersi dalle acque, morti, dispersi, e proprio in questo scenario pre-apocalittico Livio e Leila ancora studenti si conoscono, entrambi impegnati a liberare la città dal fango e da qui in poi li troveremo sempre insieme, o quasi.

L’intento di Arpaia non è sperimentare nuove forme espressive ma, come egli ha dichiarato in un’intervista, coinvolgere i lettori emotivamente fino a farci riflettere su temi di attualità che non possiamo ignorare se abbiamo a cuore il nostro futuro. E allora insieme a citazioni di reali personalità del mondo scientifico, sensibili all’argomento clima – viene citato anche il famoso fisico italiano Carlo Rovelli – Arpaia prefigura una realtà dove la “TransHope è una società scandinava che organizza trasferimenti al Nord e che assicura cibo, acqua, protezione armata, assistenza per varcare clandestinamente la frontiera”, quella frontiera che separa un mondo ancora vivibile da uno oramai inospitale e dominato dalla barbarie. E allora si assiste a vere e proprie guerre per accaparrarsi le ultime risorse d’acqua e di cibo in un paesaggio che se non è riarso dalla siccità è sommerso dal mare; laghi che si trasformano in crateri vuoti dove le trivelle e le idrovore succhiano l’acqua a profondità di centinaia di metri e le persone muoiono per strada di stenti e di malattie; dove la pietà non è di casa e le neo-tribù difendono con la vita quel poco che sono riuscite ad ottenere con la violenza, “o noi o loro”.

All’inizio, devo ammettere, ho avvertito una certa estraneità alla vicenda, cioè, non riuscivo ad essere coinvolta, ho anche pensato di abbandonare il libro, perché del libro mi infastidiva apparentemente lo stile, anche se credo fosse invece una difesa e quindi un rifiuto della realtà prefigurata dall’autore a tenermi a distanza; superato questo scoglio, ovvero, catturata dalle vicissitudini che mettono in ogni momento in pericolo la vita di Livio e dei suoi compagni di viaggio, ho apprezzato le citazioni scientifiche e sociologiche sul problema reale del cambiamento climatico che stiamo vivendo. Mi sono arresa e non ho preteso dal romanzo l’originalità stilistica che di solito cerco: la mia vicinanza alle vicende umane e alla sorte di un gruppo sempre più esiguo di sopravvissuti sono diventate predominanti, e gli inserti di vita reale con tutte le sue diatribe, discussioni, divergenze di visione e di pensiero hanno assunto due ruoli equiparabili per importanza ed interesse. A quali tesi dare il nostro consenso, chi del gruppo riuscirà a mettersi in salvo? Credo che il punto esatto in cui ho mutato atteggiamento sia avvenuto dopo le prime novanta pagine, nel punto in cui il protagonista Livio legge due periodi dal libro che Victor, il suo ex compagno di studi, dopo una visita a Stanford, gli lascia prima di tornare a Napoli (si tratta di un vero saggio di Martìn Caparròs intitolato Non è un cambio di stagione): “L’agitazione attorno al mutamento climatico recupera l’esercizio – disprezzato, rifiutato – di pensare al futuro: anche se, in questo caso, il futuro è pura minaccia. Rimette sul tavolo la variabile fondamentale del tempo: l’idea di finitezza. Quelli che temono la minaccia di questo cambiamento introducono il concetto di morte – l’ombra della morte – in un corpo che siamo soliti pensare come infinito: la Terra, il nostro mondo. Il timore del tempo inarrestabile svela, tra le altre cose, che l’oggi indefinito è una leggenda di scarso valore” e “La minaccia del cambiamento climatico si inscrive nello spirito dell’epoca e lo perfeziona: ci troviamo in uno di quei momenti noiosi della storia in cui nessuno ha una buona idea su cosa aspettarsi dal futuro, e allora ci dedichiamo a temerlo. Il presente è sempre scontentezza garantita; mi piacerebbe allora sapere perché certi presenti producono futuri di speranza e altri futuri di terrore. Qualcuno potrebbe leggere la storia del mondo a partire da questa dicotomia: le epoche che aspettano il loro futuro, quelle che lo guardano con paura”. La mia svolta nell’affrontare il romanzo si accompagna anche a una ritrovata ed esercitata umanità di Livio nei confronti dei suoi sfortunati compagni di un viaggio verso una salvezza spietata che continua ad essere con sempre più crudeltà del tipo “o noi o loro” e che lascia indietro, a fine certa, la maggior parte della colonna di profughi. Livio in un primo tempo si dedica a trasmettere le sue conoscenze ai sopravvissuti, come se volesse lasciare il testimone della cultura nelle mani del maggior numero di persone, ma nel proseguo delle vicende, sempre più sfortunate e disumane, Livio mettendo da parte ogni egoismo dedica le proprie forze ad aiutare gli altri, più prossimi e bisognosi di protezione. La cultura e i valori che rivendica (conoscenza, libertà, umanità) si materializzano nell’impegno altruistico del protagonista che si offrirà anche di pagare il pedaggio per attraversare il corridoio umanitario a chi non può permetterselo e che la Svizzera esige dai migranti nel loro viaggio di salvezza verso Nord, e di pretendere, anche, che i suoi compagni di viaggio vengano riconosciuti parte del suo gruppo familiare per poter essere accolti una volta raggiunta la Scandinavia, meta dell’esodo di massa e ultimo paradiso in Terra, per ora. E proprio quando il gruppo di sopravvissuti a bordo di un gommone si avvicina alla costa scandinava, intravede nella profondità delle acque intere città sommerse e isolati campanili che si ergono al di sopra del livello del mare, per poi attraccare a un balcone di un palazzo e trascorrervi, negli appartamenti abbandonati, la notte. Questa descrizione come altre nel libro le ho trovate molto visionarie e da film di fantascienza , non me ne abbia Arpaia, e addirittura sembra che se ne voglia trarre una serie tv. Un’ultima osservazione riguardo la sensibilità di Bruno Arpaia nel descrivere le atmosfere e le sofferenze dei luoghi di concentramento e, a volte, di vera e propria detenzione dei profughi: ho avvertito con chiarezza i rimandi agli esodi forzati e agli stermini passati presenti e futuri dell’umanità.

Abbiamo imparato la lezione? Lasciamo allora che siano gli altri a decidere del nostro futuro? Domande retoriche a cui e di cui qualcuno però dovrà rispondere.

Laura Ivani

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