“The next morning I woke up and that’s when I discovered L.A. light”
Room to Dream, D. Lynch
Eugenia la narratrice di Things that happened before the earthquake, autofiction di Chiara Barzini, impunta la penna e traccia la sua figura. Senza sollevarla seguita a disegnare le figure di Deva, di Arash, di Henry (amici, adolescenti ai margini), di Timoteo (suo fratello), gli zii che li ospitano in una Alicudi ancora più isolata e primordiale, la nonna, neanche lei tanto rassicurante, la madre, che non è capace di rassicurarla affatto, e il padre, che li ha trascinati tutti a Los Angeles. Nella periferia di Los Angeles, non a Beverly Hills, ma nella Valley, nel quartiere di Van Nuys, dove tutto è storpio, anche i cani sono fatti male, per fare un film horror, un progetto assolutamente strampalato. L’ultima figura è proprio lui, il padre, completamente assorto nelle sue velleità artistiche, come un bambino con i suoi capricci ed entusiasmi (l’adult child della citazione di Norman Mailer in epigrafe al romanzo). In un certo senso il romanzo è scritto anche contro di lui, rispetto a lui Eugenia mette distanza, una feroce ironia, e abbastanza cinismo eppure non smette di assorbirlo nel disegno, di metterlo alla prova, come quando da bambina gli aveva detto che sapeva già nuotare e quasi annegava, entrando ed uscendo con la penna (perché lei tra la possibilità di tornare in Italia e quella che il film del padre abbia successo in America, sceglie la seconda senza ripensamenti). Perché solo quando ci si lascia attraversare le cose finalmente diventano mute perché hanno fatto il loro corso (anche la rabbia e gli scontri seguiti all’aggressione di Rodney King, il tassista nero pestato brutalmente dalla polizia, si è consumata in un dolore “muto”). E il desiderio di scrittura può finalmente liberarsi. “Mi strinse le spalle…avevo aspettato tanto di sentire quelle parole da tanto tempo, ma ora che le aveva pronunciate ero preoccupata, forse se era arrivato a questo punto significava che si era arreso”.
Nel disegno a tratto continuo si entra ed esce dalle figure, per entrarci di nuovo, finire e ricominciare o finire e basta; la testa che aiuta il cuore, il cuore che aiuta la testa. Del resto, i personaggi non sono mai separati dallo scrittore e i dialoghi per quanto reali o realisti sono sempre il proseguimento di un discorso intimo e silenzioso. E di questa storia non seguirò né Chiara Barzini con la sua (forse invidiabile?) storia familiare (di cui hanno già scritto) né Eugenia con il suo vestitino corto argentato senza mutande né reggiseno (eppure più pesante di un’armatura) e la sua adolescenza ribelle (tra ragazzi strafatti, dood, amori lesbici e la trama del romanzo che non vi racconterò) non più complicata di altre, ma solo quella parte di personaggio che Barzini ed Eugenia condividono e proteggono. Quella parte di personaggio che continua a sopravvivere, a fare quello che gli altri non si aspettano, a sorprenderli e così a tenersi viva. A baciare fino a farsi diventare le labbra blu.
Il disegno a tratto continuo è una tecnica simile al disegno cieco, ad occhi chiusi, senza guardare il foglio che poi è un modo per allenarsi a restare concentrato sull’immagine appena vista, quella che è rimasta intrappolata nella retina. Qualcuno ha detto da qualche parte che l’arte non è altro che una ricerca cieca. Una macchia più o meno definita, l’alone delle cose: quel “luminoso invisibile”, il segreto della California di cui Eugenia ha sentito parlare da Max, fantomatico co-produttore amico del padre. In The Art Life, il regista David Lynch ricorda del suo arrivo a L.A. proprio la luce. Anche se poi si rinchiuse per mesi nelle scuderie di una villa su Beverly Hills per girare The Eraserhead. Eugenia è sempre concentrata (oltre ad essere anche abbastanza selfish), tanto concentrata da sembrare quasi distaccata, assorta su quello che appena visto e che continua a vedere fotogramma a fotogramma. Concentrata tutte le volte in cui ciò che le sta di fronte prende una forma diversa da quella a cui era abituata (anche se lei non lo ammetterebbe mai). A vagare su Sepúlveda Boulevard che è già diventata familiare come Campo de’ Fiori (familiare in un senso nuovo). Quando mette piede nella scuola americana e lo sguardo cade sulle Reebok Pump comprate al mercatino, sicuramente la scelta sbagliata (“Rimasi in piedi nel corridoio a osservare quelle orde di studenti. Non sapevo cosa fare…”). Concentrata sulle labbra di Deva. Quando osserva nascosta ed ammutolita Santino abbattersi con tutta l’ottusità di una violenza repressa sull’asina, prima di cacciare un urlo disperato. Quando tutti gli elementi che avevamo tra le mani ce li siamo già lasciati alle spalle, tutte le volte in cui il mondo è già cambiato e sta cambiando di nuovo. Lei si è allenata a oltrepassare il confine, la rete della recinzione della scuola che Deva, la ragazza di cui subisce il fascino (come solo a quell’età siamo capaci di subirlo, senza riserve, a capofitto, anche il fascino di una coda di cavallo), scavalca senza mai guardarsi alle spalle. Registra i presagi, gli oggetti che sono simboli, flash di storie già accadute: il tritarifiuti, la Ford Thunderbird di seconda mano, i pesci morti nella barca di Santino. E quel rumore ipnotico di fondo come un gran motore che trita, frulla, riscalda, ulula come un asciugacapelli, le seghe elettriche dei giardinieri che tagliano gli alberi… il ragliare degli asini che scuote l’isola.
All’inizio si percepisce come un fantasma, un’adolescente che passa inosservata (inosservata prima agli occhi dei genitori, quando rientra al mattino dopo essere scomparsa per tutta la notte, e ritrova i genitori serafici, il padre testa in giù a fare yoga, perché la vera notizia è che il film ha trovato un produttore, e la nonna le dice “non si sono neanche resi conto che sei stata via tutta la notte”). Lei osserva senza essere vista; poi ha il suo primo rapporto sessuale e sperimenta la sensazione di indossare un costume di gomma che non le fa sentire il dolore, perché non vuole più essere un fantasma ora, ma vuole essere vista, abbracciata, toccata, penetrata. Si prende Arash (anche se lui non vuole farsi vedere in giro con lei), scopa con l’assistente del padre, si prende il ragazzo secchione indossando quel vestitino d’argento, e l’anno dopo non arriva più a scuola con le Reebok Pump. Sandali, shorts e una nuova sicurezza.
Il costume di gomma le permette anche di “non vedere” mai quello che fa “perché c’era sempre uno strato di gomma che ti copriva gli occhi, ti proteggeva e separava dal mondo allo stesso tempo”. Come il disegno cieco, come se per disegnare meglio, per imparare a disegnare (a scrivere) dovessimo fare a meno di qualcosa, della vista, o della logica, per esercitare altri sensi, periferici. Senza qualcosa: senza poter usare la lettera “e” come fa George Perec nel romanzo La Disparition, senza qualcosa che è la forma della sparizione dei suoi genitori, entrambi deportati ad Auschwitz; senza la luce come nell’arte di David Lynch, per rimanere intrappolati in quello che lui chiama “the deep darkness”, per cercare di aderire il più possibile a sé stessi, a quello che siamo.
È quello che fa Eugenia (magari anche grazie alle canne, all’alcol ed altre droghe). Ed è quello che fa Barzini. La scrittrice Antonella Lattanzi parla di piccoli fori, che ci fanno amare ed ossessionare per una storia: la scrittura permette di bucare quei fori; da lì escono fuori le visioni, le emozioni, anche quelle che ci fanno appropriare di quella storia. Per Barzini è qualcos’altro, forse proprio il contrario: gli scudi, i filtri, le rocce, i mattoni (il lutto per la morte violenta di Arash è un mattone avvolto in uno straccio e poi chiuso in una scatola perfettamente stagna) che premono contro il cuore, un cuore che non ha angoli, e le contrazioni (i can’t e won’t di Lydia Davis), che quelle otturazioni provocano. Per effetto della pressione tutto si deforma (non è forse il romanzo una grande deformazione in cui però ci ritroviamo?). Eugenia si muove in una città deformata, a tratti macabra, horror: è lei a deformarla con una certa concisione o assolutamente recettiva, pronta a coglierne tutte le deformazioni. Quando, mentre si aggira per le strade del quartiere, passa accanto al Sound City Studio (quello dove registravano i Nirvana) fatiscente; quando ci porta tra i corridoi dell’Hotel Alessandria (dove Rodolfo Valentino aveva la sua suite), dove il padre sta girando il suo horror; quando la nonna galleggia sotto le luci al neon della vasca di un hotel di secondo ordine mentre le dice di no fare entrare troppa acqua nell’ano per le emorroidi, ed Eugenia capisce con una “lucidità totale” di non volere essere lì. E di fatti scappa con il primo venuto, Alo.
Esiste un rompicapo (quello dei nove punti) in cui bisogna unire i punti con un tratto continuo, senza sollevare la penna dal foglio. Sembra che il trucco per riuscirci sia banale ma non evidente: allungare il tratto oltre il punto per poter allungare le linee e congiungere i punti. Eppure, il gesto di attraversare il punto ed andare oltre è per la maggior parte di noi una specie di tabù: ci fermiamo al punto. La logica ci blocca. Quello che ci permetterebbe di allungare il tratto oltre il punto è il pensiero laterale, che è un altro modo di risolvere il problema: non sbatterci contro, ma sovvertire la logica, scardinarla. Chiara-Eugenia è un’artista del pensiero laterale (non come tecnica da imparare leggendo uno di quei terribili manuali di self-aid), dell’essere fuori dagli schemi (in un senso più profondo di una semplice storia di ribellione). Così la ritroviamo con indosso una vecchia pelliccia di leopardo (addicted al vintage negli anni Novanta prima di ogni moda) appena trovata tra i resti di una villa abbandonata ai piedi di Topanga Canyon, dove si trova, distesa esausta su un lettino da piscina, mentre il terremoto scuote Los Angeles e la Valley.
Le figure legate dal tratto continuo riempiono e coprono il buco (anche affettivo) attorno a cui si costruisce la storia. Anche la formazione di Eugenia, che, come ogni adolescente, è una specie di creatura mitologica pronta a cambiare pelle (a rinascere), avviene per mancanze e sottrazione: tutto quello che ci manca, le parti amputate “mi mancavano degli arti qua e là, delle parti del cuore”. Lo stesso paesaggio è quello che cola giù nelle crepe, la lama che ti attraversa, le radici degli alberi che spaccano le strade. I solchi e le viscere sono portali che uniscono gli scogli di Alicudi (dove Eugenia e Timoteo sono spediti dai genitori anche come una specie di pacco) e i canyons di Topanga. Dove la sovrabbondanza si converte in scarsità. Un paesaggio instabile (l’origine vulcanica delle isole dell’Arcipelago delle Eolie dove Eugenia trascorre le vacanze estive, e la faglia che attraversa Los Angeles), in cui bisogna sopravvivere. Dove le stelle non riluccicano ma provano a brillare, non risplendono lassù ma sono affondate in un cielo viola. Le crepe creano così un nuovo, strano grembo dove Eugenia sente di poter finalmente abbandonarsi.
Anche io ho l’amica che ha tutta la sua vita in un’agenda, le vacanze organizzate in anticipo, tutto così bene incastrato per fare in modo che mentre lavora i figli non rimangano incustoditi e soprattutto non si annoino. Parteciperanno ad uno stage che sarà sempre il più interessante, li devi portare assolutamente, ci devi assolutamente andare, ma costa un po’, l’uscita settimanale e poi mensile con gli scout, perché questi bambini devono imparare tutto, a districarsi nel bosco (e quindi nella vita), a sciare, anche nelle sue versioni più estreme, a nuotare (anche in uno tsunami), conoscere tutto prima che tutto cominci, per non fare mai figuracce… Ce l’ho anch’io un’amica così e le voglio molto bene. Poi ci sono famiglie come quella di Eugenia, che sono assolutamente disorganizzate, caotiche, dove tutto avviene mentre avviene, senza troppi materassini per parare le cadute. “Non mandateli in quelle spiaggione orribili piene di lettini e ombrelloni. I ragazzi devono imparare a muoversi nella natura o non sopravviveranno mai nel mondo, figuriamoci a Los Angeles”, è una frase dello zio. Eugenia ha imparato la lezione. Perché in fondo la nostra esperienza è una superficie instabile, parole instabili tra una casa, un albero, ed una luce, anche prima, anche dopo ogni terremoto.
Stanotte ho sognato Eugenia-Chiara, veniva a salvare anche me con il suo costume di gomma. La me dei sogni, quella che continua a rinascere, l’eterna ragazzina che ha ancora bisogno di essere salvata. Terremoto mi è entrato dentro, ha oltrepassato tutte le barriere ed è scivolato giù.
Silvia Acierno
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