Dalla memorialistica si impara che si risale ogniqualvolta si è toccato il fondo. La teoria, all’apparenza assai semplice, emerse negli anni successivi ad Auschwitz, e Primo Levi la spiega così in Se questo è un uomo:

“Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono della nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza.” (SQU, p. 11)

È anche detta “teoria della retroazione” ed è la visione del mondo che sorresse Levi per molti anni dopo il ritorno dal campo di concentramento, ma non abbastanza a lungo. Quanto questa teoria sia sempre valida è difficile dire, visti gli innumerevoli e assai complessi risvolti delle vicende umane. È evidente d’altronde che negli scritti dell’ultima parte della vita dello scrittore e chimico torinese, essa precipiti verso una perdita costante di energia, per cristallizzarsi infine ne i Sommersi e i salvati, e nella scelta di uscita definitiva dell’uomo dal mondo.

Molto diversa, invece, La scelta di Edith, la piccola nonnina ungherese – Edith Eva Eger – che, sopravvissuta ai lager, racconta la sua esperienza nel suo primo libro, alla veneranda età di 90 anni.

Sì certo, la storia è la stessa, ma questa volta la teoria della retroazione sembra valere e persistere. Edith è la “Anne Frank che non morì”.

Sedicenne, venne rinchiusa nel campo di concentramento di Auschwitz, i genitori vennero entrambi mandati immediatamente alle camere a gas. La ragazza, allo stremo delle forze, sopravvisse insieme alla sorella alla marcia della morte a Gunskirchen, prima di essere liberata – raccolta sopra un mucchio di cadaveri – da un soldato americano del reparto Settantunesimo Fanteria:

“Lui adesso è concentrato sul tentativo di estrarmi dalla pila di corpi. Deve liberarmi dai morti. Sono mosci nel volto, mosci negli arti. Anche se ridotti a scheletri, sono pesanti, e lui fa fatica a sollevarli. Il sudore gli riga il volto, storce il naso e tossisce per il fetore. Si sistema la pezzuola sulla bocca. Chi può sapere da quanto tempo sono morti quei morti? Forse solo un respiro o due li separa da me. Non so come formulare la mia gratitudine. Ma la percepisco come formicolio sulla mia pelle.” (p. 9)

Risorta dai morti, impara poi con estrema lentezza ad affrontare il suo dolore, ad accettarlo, a perdonarsi di essere sopravvissuta e, con determinazione, studia per diventare psicologa, specializzandosi nella cura del dolore dei pazienti affetti da disturbi da stress post- traumatico. Il suo è un esempio concreto di retroazione.

La verità è che quando ci si accinge a leggere un libro che riguarda l’Olocausto si è preparati ad affrontare pagine e pagine di sofferenza profonda, di dolore indescrivibile, eppure (de)scritto. Si è preparati a tutto quanto di tremendo e traumatico quella tragedia contenga. Probabilmente non ci si aspetta di trovare anche qualcos’altro, una più o meno velata vena umoristica, una spinta positiva, una speranza; non ci si aspetta di ridere o sorridere, dopo aver molto pianto. Si entra in queste righe come su un terreno scivoloso e instabile, nel quale c’è ad ogni pagina il rischio di cadere o inciampare. D’altronde, come si può non vacillare leggendo di quando Eva è costretta a ballare sotto lo sguardo di Mengele, che la fissa mentre lei volteggia sulle note del Sul bel Danubio blu e, nel frattempo, ordina ai suoi soldati la morte in camera a gas di altre cento ragazze? Il libro è diviso in quattro parti: Prigione, La fuga, Libertà, Guarire. È un vero e proprio inno alla vita, un invito alla resilienza.

Libri come questo contengono una melma appiccicosa e viscida da cui non ci si libera neppure dopo aver finito la lettura, sono libri difficili da affrontare, ma se alla fine si sceglie di farlo, da essi si impara che l’amara prigionia ha la stessa faccia della libertà e che la sconfitta ha la stessa sostanza della vittoria. Nel loro essere un “momento di sistemazione del passato”, sono terapeutici sia per chi scrive che per chi legge. Ed è per questo che ne vale la pena. Il messaggio della Eger è essenzialmente: “Non possiamo scegliere una vita libera dalle sofferenze, ma possiamo scegliere di essere liberi, possiamo smantellare mattone dopo mattone la prigione che c’è nelle nostre menti”.

Ancora oggi in tutte le sue uscite pubbliche dove porta testimonianza della sua storia, la Eger inizia sempre con questa frase: “Non sappiamo dove stiamo andando, non sappiamo cosa accadrà, ma nessuno può portarti via quello che hai messo nella tua mente”. Lo sforzo è, infondo, lo stesso fatto da Levi quando, trasportando la minestra in baracca insieme con Pikolo, richiama alla memoria quello che ha nella testa: i versi del Canto di Ulisse di Dante- “fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Quell’episodio è così significativo in quanto il richiamo a una vita intellettuale che permetta di superare la condizione del “bruto” è un richiamo per tutti i prigionieri, alla necessità di scampare alla destituzione della statura umana che il Lager voleva realizzare.

Certo, il libro della Eger non ha una struttura neppure minimamente paragonabile al Se questo è un uomo di Primo Levi, se ve lo state chiedendo. Devo ammetterlo, per anni mi sono tenuta a distanza da altri libri sullo stesso argomento, sempre tentata com’ero al paragone con Levi. C’è qualche scrittore capace di raccontarci meglio di Levi l’Olocausto? C’è uno scrittore capace, con una singola e impassibile frase – “Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei”- di raccontare il disumano che c’è nell’umano? Probabilmente la mia risposta continuerà ad essere no. Di certo, però, sono a conoscenza che, sebbene possano esserci risultati letterari e artistici di diverso livello, la sostanza che anima questo tipo di narrazioni è ciò che rimane. La scelta di Edith – considerando anche che la Eger è tra le ultime testimoni oculari dell’Olocausto ancora in vita al mondo – è una testimonianza assai preziosa.

Antonia Frascione