L’urlo e il furore è un libro ma è anche quattro libri, come il Vangelo. Per parlare del romanzo bisognerebbe prima scomporlo: quattro racconti; ciascuno con il suo stile, le sue regole, persino i suoi temi. Allora invece di percorrere la superficie del libro — e dire quando è uscito (1928) e dove (USA), chi l’ha scritto (Faulkner) e che tipo era (uno che beveva più di Hemingway e che ha vinto il Nobel), di cosa parla (della famiglia Compson) e dove è ambientato (contea immaginaria di Yoknapatawpha, sud degli USA) — è forse meglio prendere la prima parte e andare un po’ sotto la superficie, perché in libri come questo (o il Vangelo) le cose scritte contano quanto il modo in cui sono scritte.

La prima parte, Sette aprile 1928, è il monologo interiore di Benjy, uno dei figli di Jason Compson e signora. Monologo interiore vuol dire che le cose sono scritte così come avvengono nella sua testa. Esempio:

La camera andò via, ma io non tacqui, e la camera tornò e Dilsey venne a sedersi sul letto;

o (Caddy è la sorella che Benjy ama):

Caddy prese la scatola e la mise sul pavimento e l’aprì. Era piena di stelle. Quando stavo fermo, stavano ferme anche loro. Quando mi muovevo, brillavano tutte. Tacqui.

C’è qualcosa di strano; ma cosa? La risposta è nel titolo del romanzo, che è una citazione di Macbeth:

La vita non è che […] un racconto fatto da un idiota, pieno di urla e furore, che non significa niente.

Benjy è l’idiota. Disturbo cognitivo, diremmo noi; ma per loro è un idiota di 33 anni (sì: gli anni di Cristo quando fu ucciso. Un caso? Certo che no: l’ultimo giorno, 8 aprile 1928, è Pasqua). Benjy è l’idiota e per questo il suo monologo sembra incomprensibile; di certo è difficile. Bisogna entrare nella sua testa per capire che se “la camera andò via” è perché Dilsey ha spento la luce. E davanti a questo sforzo molti lettori chiedono: perché dovrei leggere un libro incomprensibile?

Le risposte sono molte, ma resto convinto che il miglior motivo per leggere un libro resti: la bellezza. Ci sforziamo di entrare nella testa di Benjy perché da lì si vede una bellezza enorme e terribile. È da lì che sentiamo l’odore degli alberi se Caddy ci abbraccia. È da lì che ci basta guardare un fuoco per calmarci. È solo quando siamo, piano piano, diventati Benjy, che può succedere, per esempio a pagina 48, di capire che, se nella prima pagina Benjy piangeva guardando una partita di golf non era perché è un idiota, ma perché uno dei giocatori ha detto “Qui, caddie” nel 1928, quando Caddy e l’odore degli alberi non ci sono più. È solo diventando Benjy che può capitarci di aprire una scatola e trovarla piena di stelle; e allora, per un istante, smettere di disperarci, di urlare.

Arturo Rossi