Ho letto Trilogia della Città di K. di Agota Kristof in età adulta, attirato non tanto dalla sua trama quanto dalla curiosità di leggere qualcosa che arrivasse dall’Est Europa.

Avendo infatti amato Sándor Márai, non potevo non esser attratto da un’autrice ungherese – naturalizzata svizzera – che apparentemente prendeva quella stessa materia così ben maneggiata dall’autore de Le Braci, ma la assemblava diversamente, mescolandola con ingredienti diversi, e ritrovando nuove soluzioni, inedite, mai esplorate così a fondo e in maniera così affascinate.

Di che materia stiamo parlando?

Del rapporto con le proprie radici, della propria casa, delle origini che legano l’uomo a ricordi, sentimenti, luoghi, i quali rimangono inaccessibili a causa di un mondo che non sa accogliere, ma solo mortificare. È il mondo stretto fra le due guerre mondiali, ma è anche il mondo che guarda al proprio passato come un qualcosa di sempre più remoto, consapevole che il futuro non potrà che essere diverso.

La Kristof risponde a questa consapevolezza attraverso una storia che ricalca la disperazione del lasciare il Paese nativo, che la stessa autrice provò sulla sua pelle (ebbe a dire che fossero meglio le carceri sovietiche che le fabbriche svizzere).

La Trilogia della città di K. è la sintesi perfetta di questo senso di smarrimento: i personaggi sono decadenti, e nella lettura ricordo di aver provato una tristezza che difficilmente un libro era riuscito a farmi provare. Una tristezza però “sana”, frutto dell’empatia con i protagonisti Claus e Lucas, che metaforicamente rivivevano sensazioni comuni come la difficoltà a costruirsi un’esistenza serena, perché ostacolati da un mondo (di nuovo lui) che non perdona nulla agli umili e ai deboli.

Lo consiglio perché non credo che, in questo periodo storico, ci siano testi così puntuali per descrivere la sensazione di non aver punti di riferimento certi, di esser smarriti, di non poter tornare alle proprie case. La cosa spaventosa è che descrive uno scenario storicamente legato a settant’anni fa: ma si sa, la storia si ripete. Il problema è che quando capita, capita sotto forma di farsa.

Francesco Gavatorta