Quando l’editore ha chiesto a Cristina Morales di scrivere un’opera in occasione della commemorazione dei cinquecento anni dalla nascita di Santa Teresa d’Ávila, lei ha scelto di scrivere un romanzo immaginando la donna Teresa dietro le quinte della santità. Un romanzo d’invenzione, quindi, ma profondamente intriso della vera vita della santa e su di essa fondato, nel quale l’autrice dona una voce alla donna che molte cose, a quel tempo, non le poteva dire.

È l’inizio del 1562, l’Inquisizione insegue gli eretici e la società patriarcale perseguita le donne. Teresa d’Ávila, a quasi cinquant’anni, si trasferisce a casa di donna Luisa de la Cerda per consolarla della precoce perdita del marito. Morales sceglie questo particolare momento della vita di Teresa d’Ávila, quando lei sta lottando per la sua riforma dell’ordine dei carmelitani, per molti in odore di eresia, ostacolata nella costruzione del primo monastero ad Ávila (che avverrà in segreto) e dopo le accuse di possessione diabolica per le sue visioni mistiche. In questo particolare momento la Teresa d’Ávila reale inizia a scrivere il Libro de mi vida, l’autobiografia commissionatale da padre Garcia da Toledo per tenere lontane le accuse di eresia. La Teresa d’Ávila immaginata, parallelamente all’autobiografia, produce un altro scritto, che inizia come una lettera a padre Garcia che dovrebbe accompagnare l’autobiografia ma che, come dichiara subito, non gli farà mai leggere. Così, in quello che diventa un diario più che una lettera, Teresa scrive ciò che nell’autobiografia non può dire, perché era un tempo in cui la donna viveva nella totale sottomissione all’uomo e qualunque volontà di donna, se sgradita agli uomini, rischiava l’accusa di follia o eresia.

“L’Inquisizione, se vuole, mi processerà per il fatto di essere donna e scrivere di Dio, ma neanche: per il fatto di essere donna e scrivere, di essere donna e leggere. Di essere donna e parlare. ”

Come dichiara Cristina Morales in un’intervista al quotidiano Il Manifesto, durante la scrittura del Libro de mi vida Teresa “applica una forma di autocensura anche se il risultato è un testo in cui emerge il conflitto, la rabbia per ciò che non può dire.” Ecco allora che Morales dà una voce a questa donna destinata alla santità che può dire finalmente quello che pensa – degli uomini, del matrimonio, della ricchezza degli ecclesiastici e dei signori – perché questo scritto non sarà letto da nessuno, soprattutto non dagli uomini, che, a partire dalla famiglia fino alla Chiesa e alla società, pretendono di esercitare il totale controllo sulla donna.

“Occhi maschili alle pareti, ché maschili sono persino gli occhielli delle porte.”

Questa voce è una voce fiera e determinata, ironica e profonda, che sa pensare e riflettere e che tiene testa agli interlocutori, uomini o donne che siano, ma consapevole delle proprie debolezze, dei propri peccati, di ciò che non sa fare, che si interroga sulle proprie scelte e su se stessa. Una voce che racconta di donne costrette a stare sottomesse all’uomo: nel letto coniugale e in quello extraconiugale, nella cultura e nell’istruzione e anche nella crescita spirituale, laddove la lettura delle Scritture è consentita solo agli uomini che possono studiare e imparare il latino, poiché possedere una Bibbia in volgare può costare un’accusa di eresia. Perché a questo viene educata una donna: ad acconsentire sempre, a non difendersi, “a credere che quanto più resiste, più verrà sottomessa”.

Ma nonostante questo le donne raccontate dalla voce di Teresa sono donne forti e orgogliose, femministe ante litteram, che mettono in atto una forma di resilienza che consente loro di eludere in qualche modo questa sottomissione.

A partire dalla stessa Teresa, donna dotata di cultura grazie alla madre (Teresa d’Ávila fu la prima donna annoverata tra i dottori della Chiesa), che scrive, per gli altri e per sé, e fa della propria scrittura un grido di libertà: come lei nella vita cambiò spesso padre confessore – intermediari tra lei e Dio – nel suo scritto immaginato cambia più volte destinatario, perché la sua scrittura non deve avere padre. Teresa che fa della scelta monastica una scelta di libertà, per non soccombere all’uomo nel matrimonio.

“L’amore è libertà, non lignaggio.”

Al suo fianco, altre figure femminili sostengono il loro essere donna in una società fatta di e per gli uomini: la madre Beatrice, ostinata sulla necessità di istruire sui libri le due figlie femmine; donna Luisa de la Cerda, dama fiera e a suo modo coraggiosa; Juana, amica discreta e temibile; e Maria di Gesù, monaca analfabeta che ardisce di dare consigli a un dottore in teologia e che erige il suo insegnamento “in una stanza dove dei nobili sorbiscono il brodo”. Le donne, insomma, con la loro superiorità morale e di carattere, ne escono in qualche modo vincitrici.

Un solo dubbio accompagna la lettura di questo libro, fatto di intrecci temporali che ordiscono la trama della vita di Teresa: chiudendo l’ultima pagina ci si chiede dove finisca la realtà e inizi la finzione. Ma in fondo è il bello di questo romanzo: immaginare la donna che fu poi santa è un processo che sorprende, per quanto dovrebbe essere scontato che dietro l’immagine tramandata dall’agiografia ci sia stata una donna, con pensieri, dubbi, arrabbiature di donna. E alla fine viene voglia di sciogliere quel dubbio e di andare a leggere gli scritti (reali) di Teresa d’Ávila per trovare quel confine.

Elisa Bedoni

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