«Questa è un’altra delle mie tare incurabili. Prima mi immagino le cose e poi ci credo. La fregatura è che se credo a qualcosa poi alla fine si verifica. O magari è che a furia di esserne convinto mi pare si sia verificata davvero… La mia mente ha ripreso il volo…»
Non è facile stare dietro ai pensieri disarcionati del giovane ingegnere Mani Rafat che aspira a fare il poeta di versi non ancora scritti e il rabdomante di acque carsiche che solo lui percepisce. Sia nella sua mente abituata a voli in caduta libera sia in seno alla propria famiglia allargata e sfilacciata sembra esserci in atto un cortocircuito: una serie di cavi scoperti e altri logori e non funzionanti vengono costantemente toccati dal protagonista di Ventre sepolto della scrittrice iraniana Aliyeh Ataei, da poco pubblicato da Utopia Editore, con lo scopo di prendere una scossa, o molto spesso farla prendere, e di mettere in luce un guasto tanto interiore alle persone quanto esteriore nei luoghi che esse attraversano.
Non è facile seguire gli itinerari di questo uomo solo che non ha mai avuto «una stanza tutta per sé» nella quale potersi dire: chi sono io? e da arredare in modo confortevole in cui trovare requie. È lui a raccontare in queste pagine – con le percezioni alterate da una crisi psichica amplificata dall’uso di stupefacenti a cui si è abbandonato – la sua biografia obliqua ad alta voce attraversata dalla sterilità dei rapporti e della procreazione e da uno sciame sismico identitario che trasforma le certezze nel proprio contrario.
Mani infatti ha perso la madre quando lo ha dato alla luce per colpa di una placenta corsara che si è frapposta sulle soglie della vita, non accetta di avere una matrigna, che pure si mostra premurosa, per casa gira un fratellastro che sembra sempre pronto a sabotargli la vita, ha una moglie, conosciuta all’università, a cui non riesce a dare un figlio, episodio che sviluppa in lui la consapevolezza di non essere un vero uomo.
Ma soprattutto si accompagna a una sorella gemella, in fondo il suo unico appiglio a quel mondo virilista in cui sa di non avere posto, che tuttavia nessuno vede e che anche lei è l’ennesimo ventre sepolto perché non potrà avere figli secondo una diagnosi medica. Una sorella peraltro che prima sparisce nell’indifferenza generale e poi ritorna colorando di rosa una Teheran livida e soffocante. In queste continue entrate e uscite di scena seguiamo Mani nelle sue peregrinazioni, nelle sue estenuanti ricerche di un senso, nei suoi inciampi e nelle sue rialzate in un viaggio mentale che lo porterà a scoprire la sua ‘sorella’ interiore.
In fondo tutti sono oramai abituati a tollerare gli inganni della mente di quest’uomo che tuttavia ci parla con parole a lungo trattenute, con il gusto del contrasto e dell’ipnotico.
«Siano come uccellini domestici, che non si schiodano dalla gabbia a meno che non siano costretti. Le catene che ci legano le mani e i piedi non ci danno tregua. Non capisce [la moglie di Mani] che quando ti trovi in un posto dove non dovresti stare e tuo padre continua a parlare del posto dove dovresti stare, finisce che non ti trovi né di qua né di là, né a Teheran né nella tua terra madre. Questa vita da cani diventa un purgatorio, e ora che riesci ad andare in paradiso o all’inferno è già finita da un pezzo»
Il protagonista dice di essere parte di una nobile famiglia, decaduta, che arriva da fuori e ripara a Teheran nel tentativo di rifarsi una vita. Le sue origini lo legano a doppio filo ad un mondo altro dove si poteva essere sé stessi ma che stride con la metropoli dove ora vive la quale, mentre fa sfoggio di sé, assorbe i propri abitanti nel conformismo annullando le differenze e quasi dimenticandoseli perché «perdersi è la cifra dell’uomo moderno». Un ulteriore smarrimento per chi come Mani è già smarrito in una crisi identitaria e, al contempo, in una tormentata scoperta di un nuovo sé che dovrebbe dargli chiarezza.
È un uomo non abituato a stare zitto, come i poeti, dice a sé stesso, «che hanno avuto il coraggio di provocare senza avere paura delle critiche, che sanno difendersi se un domani qualcuno verrà a chiedere conto delle loro parole», non si limita a osservare le proprie catene ma è sempre pronto a sbatterle contro la gabbia perché qualcuno se ne accorga. Diversamente dagli altri che nella Teheran in cui è costretto a vivere hanno abdicato al linguaggio per comunicare a gesti in una singolare regressione. E noi che lo leggiamo, attraverso la scrittura ad alone di Ataei, non facciamo fatica a dargli ragione, non foss’altro perché dobbiamo ammettere che spesso è proprio dalle menti più minate che sgorgano osservazioni taglienti ma eloquenti, senza filtri, sul mondo degli uomini, sui loro idoli e valori, sulla reale tenuta dei sentimenti e sul pensarsi, anche in relazione alle origini.
È inoltre una creatura che, se anche parla apertamente, non si fida di nessuno ma solo di sua sorella, una ragazza ingenua e sempliciotta che vive in un mondo di assoluti, che, per uno strano meccanismo genetico, non è né donna né uomo. Una presenza senza nome per Mani e assenza per gli altri che è il suo biglietto di ingresso nel mondo dalla porta principale, l’occasione di pensare solo a cose belle, il diversivo che attutisce il senso di straniamento che prova, la conferma che sotto la camicetta di seta si scorge ancora la tela grezza, l’accesso alla fantasia come ‘Il favoloso mondo di Amélie’, la cui colonna sonora è la suoneria del suo cellulare, dove il bene, anche solo a pensarlo, si può ancora fare.
Mani è il fratello che molte sorelle avrebbero voluto avere: abituato sempre a pensare al plurale, pieno di premure e condivisioni, è colui che ti presenta ai propri amici con orgoglio, che è sempre vicino al primo turbamento per diradarlo, che protegge come una guaina e si frappone fra te e le involuzioni di un mondo abituato a cambiare troppo in fretta sfigurando sé stesso. Mani è il migliore amico che molte donne vorrebbero avere accanto: è quello che ti telefona quando capta, con la sua anima sensibilissima, che qualcosa nel lavoro o nel privato è andato storto, è quello da cui puoi ricevere ascolto e una visione nitida delle cose ma è anche la persona che ti dà una strigliata quando vede deragliamenti che si potrebbero facilmente anticipare prima che diventino un problema. Fratello o amico è colui che si spende per gli altri senza riserve. Ma quando lui va in riserva siamo poi sicuri che gli altri siano altrettanto solleciti a farsi carico delle sue cose?
Mani, e con lui la propria sedicente sorella, è nato in un anno bisestile e pensa di dovere festeggiare il proprio compleanno ogni quattro: in fondo sono rimasti piccoli l’uno accanto all’altro in un mondo che si è fatto più grande di loro che tuttavia non riesce a contenerli, sono usciti insieme da un ventre sepolto per entrare in altri altrettanto sepolti, non sono abituati a vivere l’uno senza l’altro come spesso capita ai gemelli, come tanti altri vivono di dipendenze perché tutti siamo, a ben guardare, dipendenti da qualcosa. A Mani viene ricordato da più parti come deve comportarsi per andare bene agli altri, per essere innocuo e mai compiutamente sé stesso, con autocontrollo, modestia, empatia, rispetto.
Ma nessuno capisce che quando parla della sorella e con lei discorre e in lei si immedesima non fa altro che dare voce ad un ‘io’ femminile, che tutti abbiamo, da tempo sopito e che è ora che parli e osservi l’esistenza da una nuova prospettiva. Non fosse altro che per dichiarare che senza una parte di noi stessi a cui non sappiamo o non vogliamo dare ascolto le emozioni di oggi non sarebbero altro che la pelle morta di emozioni passate.
Claudio Musso
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