Uno e trino: l’ultimo romanzo di Claudia Durastanti, Missitalia, edito da La nave di Teseo, si potrebbe sintetizzare così, mescolando il sacro al profano esattamente come accade spesso nell’intero libro su cui, in copertina, troneggia una luna piena sfacciata e affascinante.
Il romanzo era molto atteso: l’autrice lo ha dato alle stampe dopo cinque anni da La Straniera un contro-memoir tradotto in diverse lingue, successo editoriale lucente. Un arco di tempo in cui oltre alle traduzioni di opere importanti e articoli di musica e cultura su “Internazionale”, Durastanti ha curato i volumi per una collana de “La Tartaruga”, ma senza smettere di pensare alla sua nuova storia multipla, capace di meravigliare, colpire e far riflettere.
Missitalia titolo del romanzo non c’entra col noto concorso a cui partecipò anche Loren, ma nasce dalla parola ‘Miss’, dall’inglese, concetto collegato al senso di mancanza e come già detto è diviso in tre parti, con tre protagoniste diverse e lontane per carattere e appartenenza temporale: Amalia, Ada e A.
Le anguille è il titolo della prima parte, ambientata nel 1864, subito dopo l’Unità d’Italia, tra i calanchi lucani, teatro del Brigantaggio, in cui troviamo una protagonista temeraria: Amalia Spada, detta Madre, fondatrice di una comunità matriarcale, in “un rifugio per ragazze selvatiche e uomini dalla forza mozzata, creature diseredate e ribelli in cerca di una nuova vita”. Nella seconda parte , “Acqua sporca o detesto i sopravvissuti” la storia si sposta nei primi anni ’50 in una Roma post seconda guerra mondiale e il centro stavolta è Ada, una giovane antropologa che dopo essere entrata nella redazione di una rivista, si muove per una spedizione antropologica verso il Sud, nella Basilicata.
“Siamo stati felici nel futuro” è un titolo da tatuaggio e apre la terza parte: ambientata un secolo più tardi in cui la Lucania è la base per le spedizioni sulla Luna: da qui partono le navicelle dell’Agenzia Spaziale Mediterranea, direzione satellite. Qui si muove A., una protagonista lucida e speranzosa al cospetto della fine e dei nuovi inizi.
Avevi tutte e tre le storie in testa? O ne avevi una e poi hai concatenato le altre?
La storia principale è stata quella di Amalia Spada, detta Madre: è stata la storia che ha generato le altre, mentre la prima storia e la terza hanno un’essenza di pura invenzione, la seconda parte è legata al romanzo di Pivano e Pavese che io stavo scrivendo ancora prima de La straniera e quindi è stato interessante perché la prima storia, quell’innesto, mi ha aiutata anche a rileggere una narrazione che avevo già, oltre a inventare altre parti. Certamente mi ha fatto ripensare a qualcosa che io avevo già scritto e quindi da questo punto di vista, sì, il primo pezzo lo considero madre e matrice. Era temeraria è l’incipit che avevo da subito in testa.
La prima delle tre macrostorie è legata al Brigantaggio, fenomeno storico e sociale di un Sud post-unitario e rivoluzionario. Quanto hai lavorato a livello di documentazione e quanto a livello immaginifico…
Quando si scrive c’è bisogno di storia ma anche della leggenda, già lo diceva Raffaele Nigro e lo dico perché io sono stata molto influenzata anche dal lavoro cinematografico di registe come Alice Rohrwacher o Pietro Marcello su Martin Eden – lui in quel caso lavorava su Jack London lei ne “La Chimera”- e mi seduceva questo approccio a tematiche molto materiali che in quel caso erano la vita di un ragazzo proletario o quella delle comunità rurali. Insomma sono stata attratta da qualcosa che mi sospinge sempre sull’analisi delle condizioni socio-politiche in cui però sei trasfigurato dall’approccio “favolistico”. Per me era importante perché più indietro vai nel tempo, come nel brigantaggio appunto, e più non puoi non tenere conto di questa parte di disgregazione della memoria. Per questo che ho deciso di raccontare il passato più remoto come se fosse sognante. Senza nulla togliere alla verità storica, ma per me serviva un modo per integrare la storia, anche per rendere dei personaggi meno simboli, meno archetipi. Ci sono certamente testimonianze storiche dei briganti, meno di brigantesse, spesso legate alla condizione di figlie, di compagne, mogli… io volevo cercare delle storie di autonomia. Mi sono imbattuta nelle prime immagini di queste brigantesse, sempre molto in posa, un aspetto di costruzione. Ecco, cercavo un approccio che assorbisse come una carta velina rispetto alla realtà e che fosse più propositivo, di ipotesi, rispetto alle tematiche anche del progresso, dell’emancipazione.
Infatti il punto di rottura della prima parte è rappresentato dall’arrivo della fabbrica nella comunità rocciosa e agreste…
C’era stata l’ipotesi che l’avvio della fabbrica accadesse prima di quando succede nel romanzo: io invece ho giocato sulla dilatazione dell’arrivo della minaccia, volevo preparare l’avvento come una calata dall’alto di questa fabbrica, in modo da permettere ai personaggi di definire il loro carattere e la loro interazione con l’ambiente anche per far scaturire reazioni diverse: Rosaspina che non la vuole, Amanda che ne è affascinata (pur se ne uscirà danneggiata), Amalia crede sia una superstizione prima di cedere a un’idea di progresso. Volevo restituire anche delle rappresentazioni diverse delle donne. Ho avuto donne che andavano e venivano da mondi diversi: terre così inclini alla migrazione le devi presentare anche come terre che poi ricevono visite da questi mondi e che ti portano una diversa circolarità del progresso.
Il filo del progresso si sposta poi nella seconda parte del romanzo, ambientato negli anni ’50, nella capitale, con Ada…
È la parte che vedo lontanissima a livello storico-temporale. Volevo creare intimità dove io sentivo più distanza, per quanto gli eventi che compongono quella seconda parte fossero riconducibili alla mia esperienza, a quella di una rivista culturale, quella di creare iniziative… rimane il fatto che io sono sempre comunque partita da una prospettiva di crisi: per me risultava misteriosa l’idea degli anni della luna che affascina e dell’energia, in cui non ti dovevi confrontare con la fine delle risorse, ma anzi, era un momento di massima espansione. Per questo lo racconto in prima: temevo che raccontandolo in terza persona avrei reso una distanza ancora più grande: dato che è la parte più lontana dalla mia esperienza storica. Ada è una donna che sbaglia, che fallisce. Ricordi Carne viva di Merrit Tierce? Quando la intervistavano diceva spesso che aveva incentrato il suo personaggio sul “right to fuck up”, ovvero il diritto di mandare tutto al diavolo, fallire, ed ecco, io ho voluto dare voce e forma a un personaggio che voleva fare così ma che poi, in fondo, non le riesce mai davvero a pieno e tanto è vero che sul finire rischia di divenire un personaggio più “buffo”. Ada ha un rapporto col maschile che non si tramuta in una relazione di coppia, più che altro lei compie dei tentativi, che è poi quello che succedeva in un momento storico tutt’altro che crepuscolare ma nuovo, iniziatico.
La criptonite che poi è il petrolio, la luna che svetta su questa copertina blu elettrico, l’Agenzia spaziale. La terza parte inverte storia e sogno e si apre con un titolo che resta in mente “Siamo stati felici nel Futuro”…
Questa è la parte sognata, dominata da questa luna che abbiamo sempre immaginato senza sapere che ci saremmo avvicinati: da Amalia Spada che la vede dalla finestra e che finisce nella terza parte antropizzata. E non è stato semplice perché quando il sogno diventa domestico tu hai sempre paura di dover raccontare che è più banale di quello che ti aspettavi e meno magico di ciò che credevi: volevo privare il futuro di questa sfumatura di delusione. “Siamo stati felici nel futuro” è una frase di un contadino lucano detta durante un’intervista con una antropologa, Maria Minicucci, ed è stata il mio portafortuna perché mi ha dato l’idea di lavorare sui cambi di aspettative del passato remoto e del futuro anteriore. Ho sempre scritto nel tempo del periodo ipotetico, sin dai miei primi libri – da “A Chloe, per le ragioni sbagliate” dopo il romanzo d’esordio Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra – penso costantemente a tutte le strade che non ho preso, qui, invece mi sono resa conto di aver fatto “uno scatto”.
Questa orchestra di vite potenziali genera la letteratura.
Il rischio per me infatti era continuare su un unico punto di accesso, un “canale privilegiato” eppure ripetitivo, ma se per un incidente, un’ispirazione, voglia di cambiare perché delle circostanze cospirano a favore di un cambiamento e intercetti un’altra di queste vite sommerse, ne discende una seconda, terza, quarta vita, e noto che a volte c’è più un’ostinazione e un accanimento su certe parti di sé, invece abbiamo tutte e tutti più storie.
Ho sottolineato questa frase e non vorrei “spoilerare” troppo: “A. avrebbe detto per ricominciare sulla Terra”…
Ho fatto delle domande, reali, alle persone sul motivo per cui sarebbero tornati sulla Terra una volta abitanti della Luna: c’è stata questa risposta che “tradisce” la speranza che nel frattempo la Terra si sia rigenerata e mi ha messo trasmesso molta luminosità. In fondo chi può dirlo? Io sono più dell’approccio di Anna Zink sulla capacità delle specie e degli esseri umani di rigenerarsi anche nei contesti di fine. La narrazione apocalittica è accelerata, furiosa. Invece la terza parte del mio romanzo è dedicata al periodo ipotetico, tracce sotterranee di una realtà in potenza.
Intervista di Antonella De Biasi
E tu cosa ne pensi?