Incontro con Grace Paley

La letteratura non nasce da ciò che sappiamo, ma da ciò che non sappiamo. Ciò che ci incuriosisce. Che ci ossessiona. Che vogliamo conoscere”

Ho incontrato Grace Paley grazie al meccanismo del riconoscimento. Alcuni autori e pensatori possiamo riconoscerli come essenziali per il nostro percorso. Nasce un’intesa che si radica nella personalità, e si pone a fondamento della nostra evoluzione personale. Il desiderio di avvicinarsi al lavoro e alla vita di un autore mima l’incontro fisico; si approfondisce la conoscenza con letture e notizie, e così si chiarisce perché abbiamo deciso che, una persona più di un’altra, potrà appassionarci e lasciarci insegnamenti. Cercherò in questo contesto di delineare la Paley che ho scoperto per me.

Nella raccolta miscellanea L’importanza di non capire tutto, edita da Einaudi in Italia e uscita nel 1998 a New York col titolo Just I thought, troviamo la frase che cito in apertura: “la letteratura non nasce da ciò che sappiamo…”. L’ho posta come introduzione in quanto mi è stata fondamentale, mi ha dato una scossa prima ancora di averla approfondita nei significati che l’autrice stessa ci ha tramandato. Il testo di approfondimento e la spiegazione di esperienza riguardano la critica letteraria, la saggistica o il giornalismo. La fiction non può scaturire, secondo Paley, dalla conoscenza scolastica, dall’indagine dettagliata. Piuttosto dai vuoti che la creatività va a riempire con l’intuito, divenendo epifanica. Le trame lasse e sfilacciate, i prosimetri invisi al mondo della poesia canonica, i respiri larghi tra le frasi secche che permettono di esprimere per sottrazione, sono il substrato stilistico di questa scrittrice.

Si scrive per spiegare il mondo a sé stessi” dice lei, figlia di emigrati russi ebrei in America, attivista per la pace, i diritti civili e della donna, impegnata contro il razzismo e il classismo, contro il nucleare e per l’etica ecologista. Grace ha vissuto da newyorkese doc, mimetizzata in mezzo a molti altri cittadini del West-Village, precisamente sulla undicesima strada west, tra la settima e la sesta avenue, a pochi passi da Washington Square. Una che incontri al consiglio di quartiere, al deli, dal fruttivendolo indiano. Una che usa la scrittura e la vita non scindendole, perché non si oppongono nella sua visione. Poesia è gesto amoroso, attenzione per l’altro, poesia è un elenco di ciò che devi fare, delle libertà che senti di poter pretendere e difendere. Puoi cucinare; o scrivere. Piantare un arbusto; o scrivere. Puoi guardare dalla finestra la signora anziana con il suo cane, la ragazza che si specchia nella vetrina di fronte: puoi scriverne magari tra qualche giorno, quando le troverai dentro di te, perché non se ne sono ancora andate, e se ti affacci, le vedi ancora, e le inventi un po’.

La curiosità per l’umano è il motore del mondo di Paley: lei ha sete del lato edificante che possiamo intuire in ogni essere vivente. Il suo è un mondo fatto di gesti apparentemente lievi ma che sintetizzano i grandi rivolgimenti della storia, piccoli gesti privati sui quali si costruisce ogni cambiamento (“act locally, think globally”). Relazioni durevoli e incontri fuggenti: l’intimità costruisce l’intensità, non è il tempo a conferire valore. Così tutto può giocarsi in un attimo o una vita. La scrittura di Grace è capace di catturare proprio l’intensità di un momento come quella di un’esistenza. Lei ha fede nell’evoluzione e ragiona sul fato, lo rivela il nome dell’alter ego che ha scelto: Faith Darwin, protagonista di molti suoi scritti. I suoi testi hanno fatto della brevità e intensità una dimensione precisa e perfetta.

Alle raccolte pubblicate in Italia a partire dai primi anni duemila da Einaudi, si è più di recente affiancata quella edita da BigSur (2018) e prefata da George Saunders (per la traduzione di Isabella Zani) che ambisce a riunire tutti i racconti scritti da Paley sin dagli esordi. Queste scritture hanno suscitato in America, e non solo, grande interesse e ammirazione, diventando oggetto di studio e approfondimento. L’autrice stessa dev’essersi stupita, in vita, dell’attenzione tardiva del mondo letterario: non se ne sentì mai lusingata e, nonostante le numerose richieste, non volle mai abbandonare la via del suo scrivere sintetico per avventurarsi su quella del romanzo, che non riteneva le corrispondesse. Eppure, come dice Saunders nella prefazione, oggi la scrittrice è da considerarsi come una specie di “santa laica”, cioé “un individuo particolarmente attento alle cose come sono e straordinariamente in grado di accettarle. Grace Paley rende onore a ogni persona e ogni cosa che crea (…). Questa capacità di vedere, con semplicità, tolleranza, energia, fa sì che il mondo di Grace Paley ci appaia particolarmente egualitario”.  È proprio in questa ‘eguaglianza’ che si realizza il riconoscimento: l’autrice non è su un piedistallo, ma una di noi. L’autrice ci descrive, mentre descrive il suo mondo; usa frasi profonde nei contenuti e lievi nella forma, che danno la sensazione di essere imbastite in un linguaggio comune, popolare, mentre invece ciascuna, nella propria essenzialità e pulizia, è una specie di incredibile pezzo di bravura. Ogni racconto, in poche pagine, restituisce carattere e sensibilità, figure ricche di passato e di sguardo sul presente, progettualità di vita e capacità di autoanalisi. Non per questo suo essere così verosimigliante la scrittura di Paley è ascrivibile a una sorta di realismo: per quanto imbevuta di socialità, di quotidiano, la realtà è restituita come dopo il passaggio da un filtro che trasfigura. Ogni racconto è folgorante, di assoluta modernità, eppure consono a tutta l’eredità del racconto non solo americano, ma anche mitteleuropeo.

Per quanto riguarda la poesia, Grace la frequenta all’inizio della sua produzione, per poi ritornarvi alla fine. In molti ambienti, soprattutto europei, la sua poetica è piuttosto misconosciuta. Manca di rima, di assonanze, di figure retoriche, di metrica, è vero, è piuttosto una prosa breve, ricca di pause, adatta a essere letta a voce alta, ma lontana dagli alti ‘spalti’ dove viene collocata la poesia nel vecchio mondo. Parla di politica, di cose poco elegiache: non guarda gli olimpi ma i parchi giochi, i cortei contro la guerra in Vietnam, la pelle di una donna anziana, lo sguardo deluso di un uomo che si allontana, descrive un vaso di fiori a una finestra. Ma forse ogni cosa descritta è metafora, ogni ambito è metafora di tutta l’umanità, dei sentimenti, dell’anima impaurita dell’uomo di oggi.

Allora
quando lei venne a prenderlo al traghetto
lui disse  sei così pallida  sciupata  così
gracile  issandosi sulle punte dei piedi
per arrivare al suo orecchio  lei sussurrò
sono una donna anziana . oh da allora
lui fu sempre gentile

(da Fedeltà, Minimum Fax, 2011)

Prendo a esempio questo testo nella traduzione italiana (la raccolta originale è Fidelity del 2008, pubblicata postuma dagli eredi con la sua ultima produzione), perché mi sembra indicativo di qualcosa che – secondo me – conferisce elegia a queste semplici frasi: la compassione. Paley scrive cum passio; per andare alla radice latina della parola. In lei arde la passione per l’uomo, e non ha bisogno di trovare modi complessi per esprimerla.

La scrittrice, oramai ricercata da importanti editori e testate, raccolse nel volume Just as I Thought, che ho già citato, scritti quali lezioni, pezzi giornalistici, politici, saggi, interventi orali, relazioni, e prefazioni a sua firma. Queste scritture ci consegnano un ampio spaccato del suo mondo intellettuale, e ce la fanno conoscere più da vicino nella sua biografia, nel suo impegno così come nelle scelte stilistiche. Tra i temi ‘tecnici’, quello del riscatto della cosiddetta ‘struttura debole’, concetto che ha atterrito molti narratori costringendoli a costruire scatole cinesi di trama, spesso vuote: “Tutti dicono che i miei racconti non hanno trama, e questa cosa mi manda fuori di testa. La trama non è niente; la trama è solamente tempo, una linea temporale. Tutte le nostre storie hanno una linea temporale. Una cosa succede, poi ne succede un’altra”

Un tema molto caro all’autrice è quello della responsabilità, che per Paley non appartiene a chi narra, in virtù dell’essere persona pubblica, o tantomeno di un eventuale successo, o qualsivoglia altro riflettore puntato, ma solo in virtù della propria urgenza espressiva, della propria forma di pensiero, del proprio coraggio umano. Soprattutto se donna, in quanto essere responsabile della poiesis per antonomasia.

Lasciando ad altri autori di approfondire vari aspetti in questo mese di “Dedica” su Exlibris20, affronto un ultimo tema collegato al mio ‘incontro’ con Grace Paley: quello della vicinanza e stima per Christa Wolf, che è un’altra delle autrici-culto per me.

C’è la firma della Paley, all’edizione americana di Che cosa resta, (racconti di Christa Wolf, 1992): le due si sono incontrate a Berlino, dove Grace è giunta per fare visita a un’amica, e chiede appunto di poter incontrare Christa. C’è ancora il muro, ci sarà per poco, Grace affronta il Check Point Charlie, e passa oltre cortina: “Quello che mi interessava era la donna, lo scrittore appassionato, dedito alla letteratura, che credeva al tempo stesso di dover avere un rapporto lavorativo – così come una certa responsabilità – con la società. Sembrava esattamente lo scrittore che volevo conoscere: non ce ne sono molti come lei, nonostante alcuni mi siano comunque cari”. È l’americana a raccontarci le motivazioni che l’hanno spinta a cercare la collega, la sua ammirazione per una donna che riesce a portare la sua voce oltre le chiusure di un paese socialista, povero, un paese che le può offrire solo una visione limitata, imbrigliata, come disse la stessa Wolf “nei lacci della teoria”. Eppure, questa donna riesce a parlare di pace, di dignità della letteratura, di onestà intellettuale, e lo riesce a fare senza strizzare l’occhio all’occidente capitalista e guerrafondaio, che dopo, infatti, la snobberà, per non dire che l’accuserà di aver servito la causa del suo paese, di non essere fuggita, di essersi sporcata le mani.

 “Io credo che uno degli aspetti del lavoro della Wolf che disturba – leggi rende furiosi – i critici della Germania occidentale (…) è la sua critica del comportamento gerarchico maschile, il suo disinteresse per quel tipo di eroe (…). L’unico eroe è l’antieroina Cassandra”. Così Paley sulla Wolf, sulla dignità della donna, sulla necessità degli antieroi, sulla voce inascoltata del femminino nella società guerriera dell’uomo.

Anche nell’America pronta a esportare la democrazia a mezzo della guerra, la voce profetica e antieroica di Grace Paley rimane troppo a lungo periferica, localizzata. Eppure, le stesse motivazioni che hanno fatto trapelare quella di Christa Wolf oltre il muro di Berlino, porteranno quella di Grace oltre le strade del West-Village, oltre le acque che circondano Manhattan, e oltre gli oceani, facendo sì che questa gracile donna con i suoi racconti brevi, le sue idee pervicaci e il suo coraggio sociale, siano riconosciuti come universali.

Anna Bertini