Le parole per dirlo. Per raccontare un trauma profondo e diffuso, quello dello stupro, su cui aleggia ancora un tabù resistente, che ne solidifica il sistema invece di colpirlo e infrangerlo. X l’esordio di Valentina Mira, edito da Fandango, parte dalla ricerca autentica, intensa e dolorosa di narrare quello che avviene nella vita di una donna annientata dalla violenza sessuale: appunto cercare delle parole, dei paradigmi narrativi che prima non c’erano o erano accennati, o peggio ancora deformati.

E da lì parte il romanzo-lettera che la protagonista scrive al fratello che non vede da sette anni e davanti al quale, ripercorre tutto quello che è avvenuto quella terribile estate della maturità.

Il romanzo nasce da un bisogno: “un bisogno che non mi consente di fare altro. Come se fosse venuto il momento, non so se mi spiego. Come se l’ultimo granello di quella maledetta clessidra che mi permetteva di vivere come uno struzzo, con la testa sotto la sabbia, si fosse finalmente deciso a staccarsi e cadere giù, insieme a tutti gli altri. Lo struzzo ci muore, così, dentro la sabbia della clessidra. Mi sa che mi tocca spaccare il vetro, il tempo”.

Prima ci sono i ricordi teneri che i due fratelli hanno condiviso – non è casuale la scelta narrativa e sociale che lei scelga un uomo come interlocutore dell’esperienza terribile dello stupro, l’altro da sé, lo invita a entrare nei suoi pensieri e in quello che ha sentito, provato- immagini della loro vita famigliare, l’unione che li caratterizzava prima della frattura.

Poi si entra nella ricostruzione di quella notte: la notte dello stupro, del “no” che non viene recepito come una negazione ma ignorato, sacrificato da un suo coetaneo che crede di avere il diritto di fare del corpo e della vita di Mira quello che crede. G. è lì alla festa, con alcol e le casse che sparano la musica degli ZetaZeroAlfa, band di riferimento di CasaPound.

E succede che la vita della protagonista cambia per sempre.

La Ciociara di Alberto Moravia racconta di uno stupro durante la guerra (tra l’altro simbolicamente ambientato tra le rovine di una chiesa) ma non apre la scena su quello che avviene. Lo stupro resta in un involucro di inafferabile indignazione ma appunto un tabù.

Il romanzo di Valentina Mira tende a scardinare il concetto “del non detto” su cui si fonda la maggior parte delle storie: questo è quello che emerge fortemente, sin dalle prima pagine, il tentativo di cercare delle parole che non c’erano. 

X è la voglia di dissotterrare i segreti. Tutti. Di farci finalmente i conti, con quei segreti. X sono due strade che s’incrociano e poi si allontanano, ma quel punto in comune c’è stato, rimane. Prima c’era un piccolo neo, in quell’incrocio lì. Incrocio di due linee uguali e opposte.

Come sorella e fratello.

Mira usa subito la metafora del noto cubo di Rubik, per rappresentare i tasselli d’identità che si confondono e si devono risistemare quando si subisce un trauma simile: molte donne non denunciano, non ci riescono, perché sono in mille pezzi, perché manca una cultura della consapevolezza appunto della gravità di quello che implica subire una violenza.

Stupro. Già la parola è sgradevole, sembra un invito a non pronunciarla: s-t-u-p-r-o. Ha un suono forte, forse troppo – sa di lacerazione. E poi c’è quel tu in mezzo, s-tu-pro; quel tu che sembra un dito puntato e non si capisce mai se, mentre la dici, lo stai puntando addosso a un altro o a te stessa, accendendo un riflettore che non volevi, che nessuna vorrebbe mai. E se invece fosse necessario? Se fosse necessario raccontarti tutto, visto che è evidente che dire “È una cosa seria” stavolta non basta”. Una cosa seria. Una cosa su cui le strumentalizzazioni politiche e propagandistiche come la Mira racconta in X sono eccessive e lesive. E spesso non aiutano chi deve essere aiutato e chi dovrebbe cambiare.

Il romanzo ha un ritmo incalzante, vivo, preciso.

E l’autrice non lascia mai i lettori nella sensazione di essere e sentirsi semplicemente “reduce” o “vittima”: non solo perché racconta tutto il resto della sua vita dopo quella notte, dalla laurea alle prime esperienze lavorative da “millenials”, al suo approccio col mondo giornalistico, ma perché la sua narrazione è un faro che si accende sui negazionismi, sui luoghi comuni sul corpo femminile, sulle dichiarazioni del “se non ha denunciato subito non può essere stata violenza”.

Ma tu, lo sai almeno cos’è uno stupro? No, che non lo sai. Però senti le notizie al tg. Di sicuro le leggi sui social, da quelli non si scampa. Senti i politici che piacciono a G. riempirsi la bocca di questa parola. Li senti dare la colpa ai migranti. Li senti dire bugie sulle violenze sessuali, bugie che fanno ribollire il sangue; li ascolti e ti accorgi che non ne parlano mai davvero se non per crearsi un nemico comodo, lontano da sé. I nostri corpi, le nostre vite diventano propaganda. Diventano l’occasione ghiotta per creare un capro espiatorio contro il quale invocare la castrazione chimica – in barba al garantismo e in barba al fatto che, se fosse legge e tutte noi avessimo la possibilità di denunciare, i primi a perdere l’uso delle palle sarebbero proprio loro. O i loro amici. O i loro figli. O i figli dei loro amici. O gli amici dei loro figli”.

La storia che Mira ci regala andrebbe letta nelle scuole: alcune parti andrebbero sottolineate a matita e tutti, a prescindere dal genere o da qualsiasi orientamento, dovremmo riflettere su quanto sia necessario rifondare una nuova cultura del rispetto dell’altro, senza prevaricazioni e negazioni.

Aprendo una finestra sul sesso inteso in maniera differente nell’educazione tra uomini e donne e non omogeneo, fondato sulle stesse regole: e qui l’autrice accenna alla grande difficoltà di riferire dello stupro alla madre, donna, ma portatrice di una cultura che va rivista.

La salvezza affiora nelle pagine che parlano di sangue e di giorni a pezzi, di come lo stupro non esca più dalla vita. Affiora nel dialogo aperto con il fratello, cercando di portarlo dalla sua parte.

Sei poco più di una voce nella mia mente; ma a quella voce, a questo fratello invisibile che sei per me, ho bisogno di attaccarmi una volta di più. Forse è solo l’altro, inteso come l’Altro e quindi come un concetto quasi astratto di qualcuno che non sono io e forse non sei più neanche tu ma l’idea di te, il fratello eterno, quello forse può ancora essere il filo di umanità che mi permette di salvarmi”.

Antonella De Biasi