I got bad news for you, kid. You’re a writer, and you’re never going to shake it.”

C’è una ragazza, all’inizio di questa mia piccola storia (che durerà due tappe, ve lo dico subito), una giovane studentessa dei primi anni ’70, iscritta alla State University of New York, nella città di Oswego (sulla riva sud-orientale del lago Ontario, nella parte centro-nord dello stato di New York).

La ragazza si chiama Alice McDermott. Segue corsi di Inglese. In particolare, nel momento in cui la stiamo guardando, il corso “The nature of Non-fiction”, tenuto dal professor Briand – scrittore e giornalista, ex tenente colonnello dell’aeronautica militare, veterano della Seconda Guerra Mondiale, autore di Daughter of the sky, una biografia di Amelia Earhart pubblicata nel 1960. Un giornalista, e la non-fiction.

Il primo compito assegnato agli studenti dal professor Briand è infatti: scrivere un saggio autobiografico.

La giovane Alice scrive da quando era bambina (tra le altre cose teneva un diario, allora, che aveva chiamato Il diario dei sogni, su cui raccontava i propri sogni, appunto, peccato che nessuno fosse vero: tutti inventati – all made up – nella speranza che qualcuno, chissà quando, trovasse quel diario e che leggendolo pensasse: che sogni eccezionali!).

Quel giorno la giovane Alice, uscita dall’aula, forse passeggia per il campus, pensando tra sé e sé.

A nessuno di noi è dato sapere se fosse autunno, inverno o primavera, se gli alberi fossero spogli oppure rigogliosi, se ci fosse la neve oppure no, se il cielo fosse terso oppure no. Quel che sappiamo è ciò che Alice ha in mente di fare: non scriverà nulla di autobiografico – a chi potrebbe interessare la sua vita, quello che le è accaduto?

Inventerà qualcosa, quello che ha sempre fatto, e col pronome io – basta soltanto la grammatica – darà al professore Briand l’impressione che quel qualcosa, qualunque cosa sia, le sia davvero successo.

Nei giorni seguenti, a Oswego, sul lago Ontario, Alice scrive il suo saggio (non)autobiografico, e infine lo consegna al professore.

È un grande insegnante, Paul Briand: tanto per dirne una, proietta in aula, su uno schermo, tutti i lavori dei ragazzi – e siamo solo nei primi anni ’70: tecnologicamente, preistoria. Vuole che imparino ad assumersi la responsabilità di ciascuna parola abbiano scelto, perfino di ogni segno di punteggiatura. Vedere tutto proiettato su uno schermo renderà più semplice quell’assunzione di responsabilità. Quale modo migliore? Un modo che comporta anche imbarazzo, certo, e che può intimidire, ma fa parte del gioco.

In aula c’è silenzio, mentre lo schermo si riempie di scrittura, ora di uno studente ora dell’altro, e il professor Briand commenta: non vuole sapere cosa ne pensino l’autore o l’autrice del saggio in questione, non vuole sapere cosa ne pensino i compagni, non è una faccenda democratica. Esamina i saggi autobiografici, e poi è il turno della giovane Alice, e il professor Briand esamina e commenta il suo – una ventina di minuti, come gli altri.

Appena finito, si rivolge ad Alice, le dice: “McDermott, voglio parlarle al termine della lezione”.

Alice è lì, seduta. È preoccupata, come sarebbe preoccupato chiunque avesse mentito, avesse imbrogliato. Crede che lui le voglia ricordare il compito assegnato – un saggio autobiografico, accidenti, e non un’invenzione – e il senso di quel corso: la non-fiction.

Trascorrono minuti. Altri minuti ancora.

Il tempo scivola su Oswego, sul lago Ontario, nello stato di New York, e sulla testa giovane di Alice, preoccupata. Il tempo scorre e scorre, e poi il professor Briand saluta gli studenti: lezione terminata.

Mentre i compagni sciamano vociando fuori da quell’aula, per riversarsi in altre aule o fuori, all’aria aperta, lungo i viottoli del campus, a passi pesanti e a testa bassa Alice raggiunge la cattedra.

Il professor Briand la guarda per un attimo, la guarda negli occhi, poi dice: “Ho cattive notizie per te. Tu sei una scrittrice, e non potrai mai liberartene”.

È in quell’istante che succede tutto.

È solo un istante, una mattina qualunque nella città di Oswego, nei primi anni ’70, mentre gli altri studenti, nel frattempo, si sono accomodati su altre sedie, camminano lungo i vialetti dentro il perimetro del campus o mangiano qualcosa o parlano tra loro. Non hanno idea di ciò che sta accadendo, tra Alice e il professor Briand; forse, se anche l’avessero, non gliene importerebbe.

Alice è nata a Brooklyn, il 27 giugno del ‘53, in una famiglia irlandese, cattolica e devota. È cresciuta a Long Island, coi genitori e due fratelli più grandi. In fondo è una ragazza come tante, che ama molto leggere, ama altrettanto scrivere, che da bambina aveva il suo diario dei sogni.

Scrivevo per dare ordine al mondo, ma soprattutto per dire la mia”, ha raccontato in seguito. “In una famiglia molto tradizionale, patriarcale com’era la nostra, mio padre e i miei fratelli avevano voce. Quand’ero piccola, facevo fatica a concludere una frase senza che l’uno o l’altro m’interrompesse o mi parlasse sopra. Per loro ero soltanto una bambina. Scrivendo, invece, potevo concludere ogni frase. Potevo raccontare, se mi andava, di due fratelli impressionati dall’acume, dalla profondità, della sorella minore.”

È una ragazza come tante, appunto. Niente che la distingua dagli altri studenti – quelli che sono usciti dall’aula, adesso silenziosa. Eppure, accanto alla cattedra, nel campus della città di Oswego, nei primi anni ’70, in quell’istante accade qualcosa: la giovane Alice, che sta per andarsene a sua volta, non è più la ragazza che era un minuto prima, mentre camminava a testa bassa e a passi pesanti, attraversando l’aula, convinta che il professor Briand volesse dirle: “Ti ho beccata”.

In quell’istante – uno qualunque dentro lo scorrere del tempo, niente in particolare – è già cambiato tutto.

Ecco come l’ha messa Alice, molto più avanti, tornando con la mente a quell’istante: “Sapevo di averlo saputo prima che lui me lo dicesse, ma sapevo anche che non l’avrei saputo se il professor Briand non me l’avesse detto. Questo è quello che fanno i grandi insegnanti”.

Perché Alice McDermott – I got bad news for you, kid – in fondo lo sapeva, quando, fin da bambina, scriveva le sue storie e il suo diario dei sogni, ma non l’avrebbe ammesso, neppure con sé stessa.

Allora credevo che gli scrittori”, ha detto, “fossero quasi tutti maschi bianchi, e che fossero morti, quasi tutti. I miei insegnati, fino a quel punto, non avevano fatto altro che rafforzare quell’idea”.

Adesso, è ancora nell’aula del professor Briand. La voce di lui e la notizia che le ha dato suonano come un’eco. A glimpse. Un lampo, un breve sguardo sul futuro, un piccolo scorcio su tutta la sua vita, su quello che verrà, sul suo mestiere e il suo talento.

Oltre la porta aperta, ragazzi in corridoio: i loro passi, il modo in cui si chiamano l’un l’altro, si dicono qualcosa – “Ciao”, “Ehi, dove vai?”, “Ci vediamo più tardi”, “Stasera c’è una festa”.

Ma dentro l’aula, senza che loro lo sappiano, è nata una scrittrice – in piedi, davanti alla cattedra, coi libri sottobraccio, vent’anni o poco meno, poco più – che scriverà, nel tempo, romanzi bellissimi come Qualcuno, Il nostro caro Billy, Dopo tutto questo e L’ora nona, vincerà premi prestigiosi e insegnerà a sua volta a futuri scrittori, portando loro la stessa notizia: you are a writer, kid.

Immagino che abbia timidamente ringraziato il professor Briand per non averle detto: “Ti ho beccata”, e per aver capito, soprattutto, per quell’eco sottile eppure inesauribile che non avrebbe smesso di parlarle, da quell’istante in poi, per tutta la vita.

“Grazie”, immagino abbia detto.

Thank you.

Non capita così di frequente di intercettare quell’istante, quel glimpse – per quanto mi riguarda, ad esempio, non esiste, o non me ne ricordo, il che vorrà dire qualcosa, no? La maggior parte delle volte non sappiamo quando la nostra vita di scrittori e di scrittrici sia esattamente cominciata. Ma per qualcuno accade: qualcuno lo sa.

È che, quando succede, e amiamo così tanto i libri, le storie e la scrittura, quel glimpse arriva a commuoverci. Io mi commuovo, almeno, pensando a quella ragazza coi libri sottobraccio, una ragazza come tante nei primi anni ’70, mentre si lascia alle spalle il professor Briand, che le ha appena portato una notizia.

La luce del mattino, penso, illumina il vano della porta: oltre quel vano, oltre la porta aperta, c’è il resto della vita.

Elena Varvello