“In questo piccolo libro ci sono due figure, la ferita e il guaritore. Ho vanamente cercato la guarigione scrivendo. La ferita è ancora qui.”

Si apre con questa nota introduttiva l’ultimo libro, La cura dello sguardo, di Franco Arminio, poeta e “paesologo”, discreto osservatore della nostra terra, in perenne auscultazione del mondo con l’occhio puntato sulle debolezze, sul particolare poco formidabile, sulla lentezza provvidenziale, sulla scansione dei piccoli centri, dei piccoli anfratti dei nostri cammini emotivi. Edito da Bompiani, La cura dello sguardo è più di un manuale consolatorio con il quale affrontare questo tempo così inedito.

Sono pagine da frequentare di tanto in tanto, centellinarne i versi, i pensieri e facendosi accompagnare a giorni alterni.

Parlando di un libro di Arminio è difficile astenersi dalla voglia di coordinarsi sulle stesse frequenze liriche, con lui si è tentati a fare poesia.

Ma analizzando la raccolta di un Poeta come lui qualsiasi metafora risulta stonata. Qualsiasi tentativo inutile. Allora meglio far parlare il Poeta, per sua sola voce, facendo sventolare la sua bandiera. Quella dell’inquietudine.

…Se scoppiate a piangere
è ancora meglio,
scandalizzateli i vostri parenti,
piantate la bandiera dell’inquietudine
in mezzo al salotto.
Parlate dei morti, parlate di voi
e poi ascoltate, sparecchiate,
togliete di mezzo il cibo,
mettete a tavola la vostra vita.

Il poeta dell’Irpinia orientale che dello sguardo ha fatto la sua cura, senza che la parola si traduca in confortante anestesia, scrive queste pagine nell’anno del virus che definisce orologiaio, “venuto per costringerci a mettere le mani dentro noi stessi”. La cura tra lo sguardo e la parola, la farmacia di turno è quella del paesaggio che in modo provvidenziale attua la sua missione salvifica per chi riesce a coglierlo nella sua interezza.

A coglierlo veramente.

“Siamo avvinti dall’idea di ricavare continuamente qualcosa da noi stessi e ci istighiamo a obblighi che fanno parte della nostra vita attiva, da cui ci aspettiamo ricompense, profitti, un salario monetario o morale. Non è facile uscire da questa schiavitù, ma intanto è bene svegliarsi presto la mattina e guardare il cielo e poi guardarlo ancora molte volte durante il giorno.”

La visione che ci restituisce Arminio è quella che mostra vie altre rispetto all’indifferenza e alla furbizia, tanto rischiosa quanto lo sono le armi per metterci contro gli uni con gli altri. Di fronte all’individualismo imperante lui propone l’obbligo di utopia.

“La gioia come materia scolastica. Ringraziare, ammirare, perdonare. Puntare sui paesi, riempirli dell’Italia migliore. Intrecciare l’arcaico e il nuovo, sapendo che il nuovo non è quello che c’è, altrimenti non sarebbe nuovo. Istituire l’obbligo di utopia per stare al mondo, come il casco sul motorino… Fare il pane insieme alle formiche, festeggiare i compleanni degli alberi, scrivere ai morti, ascoltare i loro consigli silenziosi.”

Passa al setaccio la distanza fisica di questo momento storico, parla della pandemia senza mai nominarla. Descrive il nostro tempo e la nostra dimensione sentimentale con la delicatezza che gli è propria.

“Ogni corpo è un pericolo, ora il punto più pericoloso è la bocca. Il mondo parla molto e non dice niente. Ogni preghiera è ammutolita. Ora qui c’è meno sangue che sulla luna. Nessuno si abbraccia, le mani sono amputate. Nessun coraggio si degna di fiorire, nessuno è così vicino da poter sentire il cuore di un altro: a un metro nemmeno il suo odore puoi sentire.”

Le pagine di questo nuovo libro di Arminio si muovono in armonia alternando racconti visionari a orazioni civili, ponendosi interrogativi primitivi con encomiabile ostinazione, evidenziando le fragilità che sono proprie a lui, il Poeta. E a tutti noi.

“Io credo di appartenere a una tipologia umana di cui si parla poco: gli inagibili. L’uomo inagibile è come una casa colpita da un terremoto. Non è caduta, ma è pericoloso starci dentro. Il terremoto che rende inagibili gli umani in genere si verifica nell’infanzia…. Noi siamo vivi perché siamo inagibili. Se fossimo saldi e senza crepe non saremmo carne viva, ma calcestruzzo.”

Angela Vecchione

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