Ferrara è la protagonista, con i suoi chiaroscuri di coerenze e incoerenze, di strade che si aprono al mondo e di mura che la difendono dallo stesso mondo, di Cinque storie ferraresi. Questa raccolta di racconti, dopo diverse rielaborazioni, viene presentata da Giorgio Bassani al Premio Strega del 1956 vincendolo e poi confluiscono ne Il romanzo di Ferrara che contiene la summa della sua opera. In queste brevi prose Ferrara è il sismografo di quella provincia italiana che durante il fascismo diventa un girone infernale dagli opprimenti e feroci connotati sociali e che, attraverso un narrato caparbiamente equilibrato tra emozione e distacco, tra angoscia e precisione, ci restituisce il volto dimenticato degli esclusi e degli offesi. Ecco che le storie di Lida Mantovani, Gemma e Auxilia Brondi, Geo Josz, Clelia Trotti, Pino Barilari, accanto a quelle degli ebrei della città, sono quelle che la Storia spesso passa sotto silenzio ma che vengono catturate da chi, come Bassani, sa guardare negli spazi bui. Lo scrittore ci insegna infatti a osservare quelle penombre e, in fondo, quella connessione tra le ampie ribalte e i piccoli palcoscenici, facendoci sentire ferraresi, anche se a Ferrara non ci siamo mai stati, e visitare strade che ci sembrano familiari perché non sono poi così diverse dalle nostre.

Lida Mantovani

Siamo in Via Salinguerra, non lontano dal centro medioevale, dove ci sono le case più antiche di Ferrara, con il suo silenzio e quell’alito di terra che dà l’impressione di trovarsi in campagna. Questa strada accoglie in un lugubre sottoscala la solitudine della giovane Lida da poco diventata madre di un bambino avuto dalla relazione con David, un ragazzo della borghesia ebraica, un po’ ribelle, un po’ millantatore, ma poi sparito alla notizia della paternità. Insieme alla madre vive di occasionali lavori di cucito per potere sopravvivere. Dopo qualche anno, Lida attira l’attenzione di un vicino di casa, un legatore di libri, un uomo più grande di lei e di una bontà infinita, che non solo si prende cura delle due donne ma aiuta il piccolo a farsi un futuro permettendogli di studiare e poi di imparare un mestiere. Oreste non chiede nulla per sé, visita ogni sera quell’antro di infelicità per conversare di religione e di politica e si accontenta di una promessa di matrimonio da Lida mai formulata a parole ma solo con cenni e allusioni. Nella storia di Lida, simile per certi versi alle protagoniste di alcuni racconti di Carlo Cassola che hanno accesso a pochi attimi di felicità e fanno incetta di disillusioni, Bassani cerca di occultare le fratture e le irregolarità del mondo introducendo un personaggio di equilibrio, come quello di Oreste, una sorta di sole che irradia il proprio calore sugli altri pianeti e li guida. Elemento narrativo che ritroviamo nel racconto successivo nella figura di Elia Corcos.

La passeggiata prima di cena

Bassani osserva una cartolina ingiallita ottocentesca che ritrae Corso Giovecca, la principale arteria cittadina, nel momento in cui prima di cena le persone passeggiano e si sofferma, quasi per caso, su Gemma Brondi, una modesta donna del popolo con occhi morati dove il raggio della gioventù brilla di rado, che si sta specializzando come infermiera. Un personaggio costruito più di vuoto che di pieno che non vuole altro che passare inosservata. Tuttavia suscita l’interesse di un giovane medico ebreo, Elia Corcos, nato da umili origini ma prossimo ad una folgorante carriera, benché solo nel perimetro cittadino. Voci e volti si intersecano in queste pagine perché il vero narratore in realtà è la sorella di lei, Auxilia, destinata ad essere zitella, presa dalla delizia di spiare e riferire, congetturare e dedurre sulla relazione che sta sbocciando tra i due. Auxilia è la prima inoltre ad accorgersi dell’impossibile integrazione tra le due anime della città, tra i veterocittadini borghesi e i contadini inurbati, orgogliosi della loro stirpe e compiaciuti della loro appartenenza. Anche Elia è un sole, ma un sole che brucia, simbolo di quel tempo moderno che sfreccia incurante degli altri verso la propria meta, voltando le spalle alla sua appartenenza ebraica: sposa, forse non a caso, una ‘guià’ di bassa estrazione, esce dal ghetto dove è nato per stabilirsi con lei in una zona fuori mano, per poi sparire nelle deportazioni. Anche se qualcuno ritorna. Come nel racconto successivo.

Una lapide in via Mazzini 

Nell’agosto del 1945 un ebreo, sopravvissuto ai campi di concentramento, irriconoscibile, pallido e gonfio come emerso da profondità sottomarine, si fa vedere in quella via Mazzini, vicina alla sinagoga, dove la città sta erigendo una lapide che commemora i 183 deportati tra i quali compare anche il suo nome. Subito sono molti i ferraresi che si sentono minacciati da questa presenza, sia quelli che per ‘’carità di Patria’’ hanno aderito alla Repubblica di Salò sia quanti hanno messo mani rapaci su uomini e beni della comunità ebraica. La vista di Geo Josz innesca nelle loro teste, abili subacquei finita la guerra, il pericolo di essere chiamati a pagare per loro azioni e non basta voltarsi dall’altra parte perché Geo, lacero e desolato, con indosso, volutamente, la tenuta da deportato non cessa mai di essere monito vivente agli occhi di tutta Ferrara. Come se non bastasse, quest’uomo si vede ovunque ci siano persone, voglia di divertirsi e di dimenticare, desiderio di convivialità, con quell’ombra di rattristato stupore nello sguardo, sempre pronto ad attaccare discorso e farsi testimonianza mentre gli altri cominciano a tenersi alla larga, con una sorta di discriminazione razziale di ritorno. Il prezzo che Geo paga è alto, vive ma è come se non vivesse in quanto sopravvissuto. È una sorta di altro Mattia Pascal, morto per chi lo conosceva, è il fantasma venuto dal passato a smascherare l’ipocrisia del presente che invano cerca di nascondersi dietro lunghe barbe. Segregato nel passato e differenziato dal resto del mondo come, per quanto con biografie diverse, Clelia Trotti.

Gli ultimi anni di Clelia Trotti 

Siamo nella Piazza della Certosa che, per la dolcezza serena del luogo e anche per la quasi e perpetua solitudine, è spesso meta di convegni di innamorati. Nell’autunno del 1946 viene attraversata da un corteo funebre laico, con bandiere rosse e autorità, in onore, non senza una qualche ipocrisia da parte dei nuovi poteri, di Clelia Trotti, vecchia maestra, rivoluzionaria socialista fino alla fine, sotto sorveglianza dall’Ovra per il suo antifascismo e morta in carcere. Il nome di Clelia è uno strappo nella coscienza collettiva che riporta Ferrara, che tenta di dimenticare sé stessa, al tempo infuocato della Liberazione. A raccontare la storia è Bruno Lattes (una sorta di alter ego di Bassani), un giovane insegnante ebreo fuggito in America e rientrato nel dopoguerra a Ferrara, alunno della Trotti e poi suo assiduo frequentatore con qualche sotterfugio vista la sorveglianza della donna. Ne conquista la fiducia ma non ne segue il suggerimento di unirsi alle cellule antifasciste e fugge oltreoceano. Ma mentre sfila la salma è ancora vivo il ricordo di quella donna che non si è mai piegata, rappresentando la prova vivente e il relitto di una società giusta e civile. Bruno è un escluso e interpreta quella drammaturgia dell’esilio con echi che rimandano all’Ortis di Foscolo. E intanto il suo sguardo va ad una coppia di ragazzi biondi della buona borghesia cittadina, che trovano nel corteo di Clelia un impedimento ai loro progetti, ai quali nel profondo vorrebbe farne parte.

Una notte del ‘43

Siamo in Corso Roma. C’è un marciapiede davanti al Caffè della Borsa che ogni vero ferrarese evita perché proprio lì, in una notte del dicembre ’43, la mitragliatrice fascista abbatté undici cittadini, avversari del Regime, prelevati dalle carceri o dalle loro abitazioni. Ad osservare le vicende di quella notte, in grado anche di individuare i colpevoli, c’è Pino Barilari, farmacista reso invalido dalla sifilide (contratta durante il suo viaggio giovanile per partecipare alla Marcia su Roma), che sta tutto il giorno affacciato alla finestra. Un uomo che non ha mai aderito a niente fino in fondo. Passato il tempo, quello stesso uomo richiama l’attenzione dei passanti forestieri sul marciapiede ricordando che quello è un luogo speciale. Ferrara è una città che non sa farsi giustizia perché gli stessi colpevoli di quella notte sono seduti comodamente al Caffè della Borsa mentre Barillari è lì a ricordarlo ogni volta, per il fastidio degli altri, lui vittima e colpevole al tempo stesso, afflitto da una tabe dorsale che sembra colpire la stessa città. Ha taciuto quando doveva e ora parla quando non gli è richiesto. Non ha denunciato durante il processo perché avrebbe smascherato il motivo personale per cui quella notte era sveglio e ha visto…

Esiste una letteratura della frontiera, della soglia e dell’attesa. Esiste una letteratura dei silenzi e degli scarti. Queste storie racchiudono tutto Bassani che poi si svilupperà nei romanzi successivi e, secondo Pietro Citati “sono tra le più belle di questo secolo: il lettore può trovarvi innanzitutto la bellezza, la prima cosa che dovremmo sempre cercare in un’opera letteraria; poi un acuto senso di esclusione e separazione dal mondo dei protagonisti, perché ebrei e scrittori. Infine, credo ci sia in questi libri una delle più fedeli rappresentazioni della provincia italiana mai fatte’’.

Claudio Musso

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