Rien ne se perd dans la vie d’un homme.

Si potrebbe partire da qui per raccontare l’attraente prospettiva di Hypericon, il nuovo graphic novel di Manuele Fior, riconosciuto come uno dei più rappresentativi autori italiani contemporanei di fumetto.

L’esergo del pittore belga Paul Delvaux, scelto da Fior, racchiude il senso dell’esperire umano in un tempo e in uno spazio che non seguono una traiettoria lineare ma che prendono deviazioni inaspettate, talvolta sorprendenti, talvolta terrificanti. Un tempo che scorre lasciando indizi, procedendo per sottrazione e accumulo in una sequenza infinita di chiusure e inizi che si sfiorano o si sovrappongono ma in cui nulla va mai perduto.

Nella storia personale, così come in quella universale.

Perché in Hypericon vi è un evidente recupero di tracce autobiografiche. A partire dai luoghi del racconto: Berlino, in cui l’autore aveva vissuto alla stessa età dei protagonisti; l’Egitto, dove aveva lavorato come disegnatore durante un’operazione di scavi archeologici.

Nella capitale tedesca si incrociano i destini di Teresa, vincitrice di una borsa di studio come assistente scientifico nell’allestimento di una mostra su Tutankhamon, e di Ruben, artista bohémien in fuga da una vita ordinaria a cui resta tuttavia legato per potersi garantire una sopravvivenza economica. Due ventenni italiani che poco sembrano avere in comune se non la condizione di espatriati. Stranieri in un paese che appare a Teresa come un “gomitolo”, “un labirinto senza pareti ma con tanti indizi sparsi”, un luogo così “unico, strampalato e incatalogabile” da farle perdere l’orientamento. Complice l’impetuosa imprevedibilità di Ruben, Teresa viene bruscamente trascinata fuori dalla confortevole linea retta della sua vita.

Ecco la prima cosa che avrei da subito imparato con lui. Se mai avessimo dovuto avere una meta… non ci saremmo mai arrivati in linea retta.

Fior si serve di Teresa per dare un ritmo teatrale al racconto,profondamente caratterizzato dalla sua mimica eccessiva, enfatica, su cui si riflettono tutte le sfumature emotive di una storia d’amore che diventa un viaggio convulso in sé stessi, nei propri limiti, nelle paure, nelle inquietudini, nella fisicità sfrenata e impetuosa di un tempo della vita in cui tuffarsi fino a farsi mancare il respiro.

Un tempo di sogni e speranze, tutto da immaginare e costruire, così come la Berlino che fa da sfondo alla loro storia, in pieno fermento, impegnata a rifarsi un volto dopo la fine di un’epoca di divisioni e paure. Una città inserita nella stessa corrente culturale che sta attraversando l’intero continente europeo. I riferimenti pop disseminati nel racconto – i cartoni animati giapponesi, i cd musicali, i primi telefoni cellulari – ce la rendono umana e familiare.

La vediamo, la respiriamo, tutta quell’aria di vivacità e rinnovamento, attraverso i disegni e la narrazione. Berlino sfila dietro Teresa e Ruben, ora luminosa e prorompente, ora grigia e austera.

Su un altro piano temporale, che si interseca e dialoga continuamente col primo in un gioco di rimandi e incastri, l’autore ci conduce nella Valle dei Re durante gli scavi che, nel 1922, avrebbero riportato  alla luce la tomba del faraone Tutankhamon, ad opera dell’archeologo Howard Carter. Dalla sua biografia Fior riprende fedelmente alcuni passaggi, ad accompagnare le immagini della straordinaria scoperta. Siamo proiettati, in questo modo, nelle suggestioni di un tempo invertito, in cui il passato si stende davanti al nostro sguardo e il futuro, invisibile e incerto, resta celato dietro le nostre spalle.

Ognuno pensa di avere di fronte a sé il futuro e dietro di sé il passato. Non era così per l’uomo egiziano. Numerose fonti testimoniano che immaginava dietro di sé quello che noi percepiamo come futuro. Essendo per sua natura ignoto, esso sta alle spalle, dove non può essere visto. Il passato invece è conosciuto, sempre visibile perché già vissuto. Ecco allora che si dispiega nella sua interezza di fronte all’osservatore. […] Per gli antichi egizi, il tempo non era altro che una ripetizione ciclica del passato. Il loro sguardo sul passato si completava progressivamente come la realizzazione di un grande affresco.

Non si sbaglia dunque a credere che una delle principali chiavi di lettura della storia, che connette i due piani narrativi, sia il tempo, intimo e universale, ciclico e mai uguale a sé stesso.

Lo stesso Fior, con Hypericon, getta uno sguardo sottilmente nostalgico, ma sempre lieve e sorridente, sul proprio tempo personale, vissuto e perduto. Come aveva già fatto con Cinquemila chilometri al secondo, opera vincitrice nel 2011 del Fauve d’or come miglior album al Festival di Angoulême. Entrambe si riallacciano a esperienze personali, raccontate attraverso l’esuberanza della giovinezza, delle partenze, dei ritorni, delle occasioni perse, dei sogni e delle opportunità.

Più lineare e sfumato Cinquemila chilometri al secondo, più maturo e stratificato Hypericon.

Elemento caratterizzante delle due opere, il colore, sapientemente calibrato, a cadenzare la narrazione.

I colori densi e palpabili e l’uso degli spazi settano la temperatura delle emozioni. In Hypericon grandi inquadrature abbracciano le architetture berlinesi, i colori fluttuano ad accompagnare i momenti del racconto, più scarichi e freddi negli istanti “bui”, si riscaldano fino a diventare terrosi e saturi nelle pagine dedicate alla scoperta della tomba del faraone. Qui anche gli spazi si allargano, Fior elimina le cornici che scandivano i frenetici tempi berlinesi e il colore si espande, fino a creare una sospensione temporale.

Alla chiusura dell’ultima pagina, al termine del viaggio nei tempi di Manuele Fior, resta la sensazione che nelle casualità, nelle contaminazioni inaspettate, nella ciclicità di un tempo mai uguale, si nasconda la profonda ricchezza del nostro essere “umani”.

E a ricordarcelo è lo sguardo ardente e fiducioso di una stagione della vita che è stata e che sempre sarà.

Abbiamo vent’anni e il nuovo millennio è alle porte.

E con lui la sensazione che il meglio debba ancora venire.

Margherita Lomangino

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