“For that is what love is. A protection from harm. If there is harm, there was inadequate love”

J. C. Oates

“I am full of a sense of promise, like I often have, the feeling of always being at the beginning.”

D. Arbus

Sulla copertina di Data di nascita, primo volume della nuova collana “i Pavoni”, edito da Solferino, delle figure maschili e femminili precipitano nel vuoto, in un pozzo dalle pareti trasparenti, le gonne gonfie come in una delle più famose cadute letterarie, quella di Alice, la protagonista di Alice in Wonderland (e del suo seguito Trough the Looking-glass). In realtà non era un pozzo ma la tana di Bianconiglio. E la caduta sarebbe stata una lunga e lenta caduta, la lunghezza necessaria per attraversare il centro della terra e delle nostre emozioni, e ritrovarsi dall’altro lato, agli antipodi, dall’altro lato dello specchio e guardare tutto con altri occhi. Semplicemente da un altro punto di vista, deformato quanto il primo.

Del resto, Teresa Ciabatti direttrice della collana, madre o madrina degli undici romanzieri raccolti nell’antologia, o piuttosto “colonizzatrice” di nuove esperienze, cita nella sua prefazione i “non compleanni” del romanzo di Lewis Carroll. E Data di nascita è un non compleanno: ovvero tutti i giorni in cui cresciamo, continuiamo a crescere, senza che la crescita meriti alcuna celebrazione; data di nascita può essere qualsiasi giorno, tutte le volte trascurabili in cui ci domandiamo “Chi sei?”, Who are you?, chiede l’insidioso Smoking-Caterpillar ad Alice.

Quelle di questi undici narratori qui riuniti sono avventure umane solitarie, come le avventure di Alice, sia quelle narrate da Carroll ma anche quelle che visse Alice Liddell in persona in quei pic-nic lungo il Tamigi con le sue sorelle in compagnia del reverendo Drudgson, l’uomo che indossava lo pseudonimo letterario di Lewis Carroll, forse una specie di Humbert Humbert, forse no. In quella Inghilterra vittoriana in cui i bambini crescevano pure da soli quando non venivano abbandonati, anche se forse non era proprio il caso di Alice che apparteneva all’upper middle-class. Per gli autori dei dieci racconti le figure genitoriali hanno smesso di essere mitiche: sono “simmetriche” ai nostri sentimenti, alle nostre angosce, al nostro senso del dovere, a volte ai nostri traumi. Figure sbilenche, più rotte che intere, sicuramente mortali. Un incastro che suona male come questa parola. Adattarsi, non è poi quello che dovrebbe imparare Alice? La casa, quella del racconto di Insolia, che si erge come un castello, in mezzo alla campagna, con la scala centrale, e le feste a bordo piscina, il padre avvocato e una madre vanesia, è oramai il luogo della deflagrazione, non più la fossa dove si nascondevano le colpe. Hanno smesso di esserlo da tempo. Da tempo i figli hanno smesso di ribellarsi, la ribellione appartiene ad un’altra generazione, o semplicemente è un racconto che ha smesso di essere alla moda. Cosa gli resta, dunque? Dare un nome ai propri genitori per capirli, subordinarli, redimerli e riavvicinarli. “Si chiama e si chiamerà Roberto”, scrivono Fabio e Damiano d’Innocenzo (“Via in cui sei cresciuto”), continuando a ritrarre quella stessa conversazione eternamente taciuta tra padre e figlio, che era già il cuore bucato di America Latina.

Nonostante la paura, le botte, gli abusi, il buio, anche gli adulti sono persone verso le quali si nutrono comunque forti sentimenti di familiarità: si sopportano come una punizione e si puniscono perché bisogna provare a salvarli comunque (Mattia Insolia in “Il piccolo incendio”). “Il suo dono, le lacrime, che oggi è anche il mio, non sono più in grado di salvarlo”, scrive Yole Signorelli (“La città degli angeli”) senza staccarsi dalla figura rimpicciolita del padre. “Capita che i loro tentacoli a poco a poco ci stringano in un abbraccio buono e cattivo insieme”, sono le parole struggenti di Jonathan Bazzi (“Anidride carbonica”).

Fu in una di quelle gite lungo il Tamigi che venne giù un improvviso acquazzone, Alice si inzuppò tutta e Carroll ebbe l’dea della pozza di lacrime (The Pool of Tears): le gocce d’acqua sarebbero state gocce di pianto. Lacrime di gigante. Ilaria Caffio (“Il tuffo”) sta affogando nel suo stesso pianto quello che non sei riuscita a piangere perché si vive comunque e le ore passano comunque anche nelle tragedie. L’anima annaspa e nuota mentre le gambe si scorticano, agitano stelle marine, granchi e banchi d’azzurro. “Ritornare con i piedi nell’acqua gelata”. Annaspa Caffio nel disordine azzurro del dolore. O si lascia trasportare dalla corrente erotica dell’acqua. E come il pianto di Alice, anche quello in cui precipita la narratrice è una punizione per essersi lasciata sopraffare dalle emozioni, dalla tristezza di essere cresciuta all’improvviso, di averlo desiderato intensamente e di avere desiderato intensamente di non voler crescere più. Ma soprattutto perché ora che è un gigante, il giardino, l’eden senza stagioni, non è più quello che era, ha smesso di essere magico, è diventato troppo piccolo. E le sue mani troppo grandi. Per Caffio l’eden restano il pontile, gli scogli e i tuffi assieme al fratello. Poi “guardare il sole offuscarsi, farsi aggressivo, sparire”.

Anche il racconto di Giagni è la storia di un corpo adolescente che cresce, e crescere vuole dire deformarsi. Il ragazzino bullizzato si rimpicciolisce per ricavarsi uno spazio in cui nascondersi, rattrappirsi e spiare senza essere visto da chi lo bullizza. Quando cresce abbassa il capo per entrare nella grotta (di nuovo una grotta), e la grotta è sempre ad un bivio: this way, turn around, right here. Ci sono adolescenti-razzo, come c’era un’Alice telescopica. D’estate, l’estate prima di nascere di nuovo, ha un solo desiderio allungarsi, anche per sfuggire alle beffe dei compagni. Ma poi la crescita si rivela essere sempre un atto violento, mai graduale, e crea un nuovo imbarazzo. “I am not me anymore”, diceva Alice al Caterpillar, invece Giagni sembra dire: sono sempre lo stesso, quello che prendevate in giro, quello che prega nelle grotte. “La sua nuova vita comincia con un’impostura”.

Nelle teiere del Mad Hatter non c’era tè, e il suo orologio da taschino era guasto e fermo sempre alla stessa ora, alle sei (ora inglese), l’ora del tè, per un castigo della terribile Regina di cuori: intrappolato nell’eterno svolgimento dello stesso atto. Mentre il Cappellaio è un anarchico che “ammazza il tempo”, ed è stato punito per questo, il Coniglio, si è adattato alle regole spazio-temporali, ha una “deadline” (in questo caso davvero a rischio di decapitazione) ed ha fretta come un perfetto funzionario. Caminito e Castellitto si fanno amici del tempo, come il Cappellaio aveva suggerito di fare ad Alice, e gli chiedono di fare avanzare le lancette, per arrivare in un futuro non troppo lontano. Che poi è anche un modo per farlo scorrere all’incontrario, il tempo, come nella seconda parte della storia di Carroll. Per Caminito un 2045 in cui anche il rito della sepoltura sarà stato oltraggiato. Castellito il 2081, nell’atto di scrivere una prefazione ad un suo libro, in un’era post-bellica. Oggi che il futuro è l’immagine del giorno dopo, ritoccata da una intelligenza artificiale, immaginare il futuro è un gesto rischioso.

Ci sono animali che appaiono fugacemente anche solo il tempo di lanciargli una pietra o protagonizzano alcuni di questi racconti. Questi animali sono come il cerbiatto nel bosco di The Looking-Glass: l’immagine speculare, quell’alleanza che ti può accompagnare oltre lo specchio, nella nebbia delle particelle e dei fotoni, dove l’amicizia è un legame prelinguistico, senza identità, breve il tempo di una passeggiata in quel bosco vaporoso, prima che l’animale faccia un balzo, scappi e si porti via il tuo io-bambino e un frammento di inconscio. I’am a Fawn. Il cane del bambino del racconto dei d’Innocenzo come il gatto del Cheshire compare e scompare, è vivo e morto, i due stadi fisici sono contemporanei nelle parole.

In A comme animal, una lunga intervista con una sua studentessa, Gilles Deleuze racconta di essere interessato al rapporto uomo-animale quando questo rapporto è “animalesco”. Perché, sembra dire il filosofo, in questo modo, facendosi animale l’uomo (lo scrittore, il filosofo) spinge il linguaggio sul limite (il limite tra umano ed animale, tra parola e grido…). « Les gens qui aiment les animaux ont un rapport animal avec l’animal ». Solo così è possibile l’identificazione. Snobba invece il rapporto addomesticato con l’animale, di accudimento, regressivo e ridicolo. Nelle illustrazioni originali di Alice nel paese delle meraviglie, quelle di Tenniel, gli animali sono vestiti con pizzi e panciotti, proprio come persone. Sono gli animali che si “umanizzano”. Anche così, attraverso questa umanizzazione, la gerarchia tra uomo ed animale (basata sulla nudità e sulla mancanza di linguaggio, come ci insegna Derrida) evapora e la linea si accorcia. Ginevra Lamberti fa entrambe le cose nel suo racconto. Dà un nome al merlo di cui ci parla, come farebbe un genitore che pensa al nome da dare al figlio ancora prima che sia nato. E dargli un nome è in fondo come vestirlo. Giorgio, il merlo, potrebbe essere un’animale dello zoo di Alice. Allo stesso tempo Lamberti fiuta la fine che farà il merlo, la fiuta come se fosse lei stessa un animale, la fiuta con quel sé profondamente autobiografico e selvatico che è cresciuto tra le valli, i sentieri, e le buche, in un paesaggio brumoso proprio come quello di Alice. Fiuta la separazione, il distacco che simboleggia tutti quelli che sono già avvenuti ed anticipa tutti quelli che verranno. Che poi è l’atto che precede la scrittura (“Stai scrivendo?”).

Gli animali, come Bianconiglio, sono frecce che sfuggono al sogno, all’inconscio, al passato, al tempo in cui non eravamo ancora nati. Segnano una nuova nascita. Irrompono nella scrittura. Ma questa volta, da qualche parte, tutto quello che accade non è stato un solo un sogno.

Al di là dello specchio, come in fondo al precipizio c’è l’underworld. Yole Signorelli ci porta dritto nel luogo proibito che però non ha più nulla di proibito; l’altro non è più il diverso, l’underwold (anche quello che gli americani chiamano sexual underworld) non sta più sotto (ovviamente non c’è mai stato). Eppure, c’è qualcosa che ci sciocca ancora non per l’immagine compassionevole dei demoni che in fondo sono i veri angeli, ma per il carico di frustrazione e di vulnerabilità che quegli angeli si portano addosso. La scrittura come altrove i fumetti sono la sua licenza per raccontare quello che resta dopo la metamorfosi: un nuovo corpo assieme agli scarti, soprattutto gli scarti, le lacrime dorate, piume di angeli, gocce di vita e battiti d’ala che finiscono ciclicamente risucchiati nel vortice della vita.

Il romanzo di Carroll era il romanzo delle tesi ed antitesi, degli infiniti travestimenti, delle identità che si riorganizzano, del mondo e dei suoi contrari, della realtà che è un’illusione e dell’illusione in cui bisogna sempre cercare la realtà, del paradosso e della meraviglia. Alice non capisce mai cosa gli stia accadendo, è sempre stizzita, e meravigliata. Poi si fa strada almeno in noi come la sensazione di aver compreso qualcosa. Una chiave di lettura che in realtà non apre mai del tutto la serratura. Everything is so out-of-the-way down here. Che non vuol dire che sono tutti matti quassotto (che poi sarebbe quassù), ma che molti di quei personaggi strambi avevano qualcosa da dire, anche se l’hanno detto sgradevolmente, o non l’hanno detto affatto, un pezzetto di verità: perché appunto la realtà è una somma di soggettività, di punti di vista, un assemblaggio. Alice forse lo capisce (quando poi alza la voce nel processo e vuole dire anche la sua finalmente, prima che il sogno e il libro finisce in un ciclone di carte e pagine); ma, come i narratori di Ciabatti, lo capisce a forza di stupirsi. Perché anche se questi narratori sembrano oramai desabusés, impermeabili alla vergogna e alla vita, nel fondo sono cresciuti solo a forza di stupore. E forse è questo stupore che vogliono per forza mandare indietro, più che la generazione o l’ideologia d’appartenenza, il cuore letterario ed umano dell’antologia.

Stupore anche quello che continua a provare il ragazzetto di Bazzi chiuso nel ripostiglio assieme al nonno, mentre il nonno spinge e gli oggetti cadono dagli scaffali come in un terremoto. Anche lui dopo entrerà in un mondo fantastico, dentro alle illustrazioni con la giusta dose di fucsia e brillantini dei libri, dei fumetti e dei cartoni che ama di più. Ci precipiterà dentro fino a perdere coscienza, ma non lo farà attraverso specchi o vie segrete.

Lo specchio e la caduta nel Rabbit’s hole erano passaggi segreti verso l’antimateria: tunnel spazio-temporali governati da leggi di compensazione. Se lo stile porta con sé anche un’idea di letteratura, questa idea è sicuramente anche di un’antinarrazione, dell’antimetaforico. Come in un tunnel le parole sono inanellamento di pensieri (Lamberti), apnea (Giagni), sottrazioni e sintesi, gesti liberatori (Casseri). Liste e poi quella mezza pagina di Caffio assolutamente Ortesiana, della Ortese di Il mare non bagna Napoli. “Sua madre ogni mese le taglia la frangetta con le forbici che usa per sfilettare il pesce. Mio cugino Carmelo ha il viso macchiato dai segni della varicella mentre Riccardo, che è più grande, dalle prime droghe. Mia cugina Sara parla solo con sua madre, zia Mirella. Veronica ha l’herpes che le mangia la bocca, a volte la faccia, e zio Mario fa il pazzo, l’ha portata da tutti i medici della città e non capisce che Veronica scopa da giugno a settembre con uomini più grandi di lei”. Le parole si portano via l’ossigeno, “due tre, perché non mi vuoi, sette otto nove, nonno mi manchi…”, scrive Bazzi.

Quando il sogno finisce, e la sorella chiama Alice per il tè, la ragazzina torna al mondo dei riti e delle finzioni, a quello dove le ragazzine petulanti imparano le buone maniere e aspettano di essere date in sposa. Il mondo dei contratti e delle doti come quella di cui ci parla Elisa Casseri (“La dote”). Al di là dello specchio, in questo caso l’aspettano sua sorella Olga assieme alla gatta Margot. È la storia di quel baule che ci siamo passate di mano in mano, quello che è passato anche tra le mani di Alice, che si sposò poi con un giocatore di cricket e visse come una lady nella campagna inglese. Alcune di noi (soprattutto exragazze di provincia) abbiamo ancora negli armadi pezzi della “dote” senza quasi sapere bene cosa farcene, usarla o continuare a lasciarla lì perché nessuno ricama più così. Vendere il corredo per toglierci di dosso tutte le pressioni che abbiamo subito. O piuttosto custodirlo come ricordo da salvare, il ricordo dei nostri nonni, del giorno in cui sono morti e tu c’eri oppure no. Sicuramente entrarci dentro, un altro passaggio segreto, dentro le paure e le vite mancate perché non le hai scelte. “Forse è così che finisce l’atto pscicomagico, con me che lo racconto”.

Il mondo al di là dello specchio di Trough the Looking-glass, assieme al tempo e alle parole saranno capovolte. Il mondo al di là dello specchio sarà una scacchiera, Alice un pedone bianco, le mosse undici, come i narratori raccolti nell’antologia. Alla fine della partita Alice sarà incoronata regina. Comunque, nonostante il padre, nonostante il nonno, nonostante il fratello, nonostante l’intera casa sia un posto di merda, nonostante l’incendio, nonostante il merlo sia morto per colpa mia, nonostante la dote sia rimasta nel baule, nonostante piango come una femmina, nonostante Dio stia sottoterra… Teresa Ciabatti raccoglie così i fiori che germogliano fuori dei giardini, perché racconta una nuova estetica che non è l’estetica dell’insolito, mostruoso, brutto, freak o queer. Ma è la capacità di allontanarsi, senza sentimentalismi né moralismi, da tutti quelli che si lamentano che il presente non è come il passato e abbandonano la speranza che possa convertirsi nel futuro. Take pictures of what you fear, diceva Diane Arbus.

Silvia Acierno