Io diciassettenne sono un buco nero, e l’amore provato per un bambino di nome Patrick morto tanti anni fa è l’estremo tentativo per giustificare la rabbia che covo nelle ossa. Il vetro della finestra rispecchia il mio volto che si confonde con le immagini deformate delle case d’intorno, quasi fossi una cosa sola con i muri del mio paese.
Eccoci qua.
In questo tempo sospeso, che neanche ad immaginarlo sarebbe stato così e così lungo e così stratificato, ho letto uno di quei libri che neanche ad immaginarlo sarebbe stato così, proprio come il tempo vissuto.
Aderente all’attimo.
Aspettavo Demetrio Paolin e quella penna che scava da quattro anni.
L’attesa non è stata vana.
Anatomia di un profeta, edito da Voland, è giunto.
È un testo denso, che ti chiede concentrazione sin dall’identificazione dell’IO narrante, e non millanta il contrario.
Ha la forza di essere ciò che è, senza negarlo.
La morte di Patrick, ragazzino suicida e guida iniziale della narrazione, è solo il punto di partenza che ricongiunge brandelli di carne e vita dell’autore stesso a testi sacri, senza falso moralismo o mistificazione, solo un tutt’uno, inscindibile, complesso e mutevole nel tempo, come la vita. Come la morte.
Ricordo la mamma di Patrick, ho memoria dei suoi capelli rossi anch’essi, meno vivaci, sciolti e lunghissimi nel grigio della nebbia durante il funerale. Era una donna corpulenta, per nulla bella. Il me diciassettenne guardandola avrà pensato all’inadeguatezza di ogni consolazione. Demetrio, piccolo mio, il tuo ventre si sarà chiuso dal dolore per quella morte. Così l’adolescenza, la luminosa stagione della giovinezza, si è fatta lutto e il tuo unico desiderio è stato la sterilità. Così il giorno dopo la sepoltura di Patrick sei andato in chiesa e, inginocchiato davanti al Santissimo, hai pregato.
La ricerca di Geremia, profeta colto e insofferente, nasce come preghiera su una tomba vuota , agli inizi degli anni 90, nel bel mezzo delle Langhe, ma diventa ben presto una invocazione senza spazio e senza tempo, a tratti piena di ira, a volte, invece, di una inattesa speranza.
Patrick e Geremia si sfiorano e non si giudicano, si incrociano e si perdono.
Geremia non si limita a denunciare il peccato, ma vuole scoprirne la causa.
Patrick non si limita a odiare la vita come tutti gli adolescenti, di un odio che dura più o meno quanto un flacone di Topexan. Sceglie di odiarla per sempre.
Un bambino divino? Un profeta che ammette il suicidio?
Non c’è una risposta. Se c’è, non è definitiva.
Se c’è, rivoluziona il senso stesso di risposta, ponendo altri interrogativi, altre vie laterali da percorrere, lasciando la scelta, di proseguire o scappare.
Se tu, Dio, mi chiedi perché il male? io ti rispondo perché esiste la libertà. Ciò che mi colpisce del suicidio, che mi porta a guardarlo senza remore – come fai ad avere paura di una cosa che hai affrontato da bambino e da solo, senza dirlo a nessuno, e ne sei uscito vivo? – è la libertà. È l’abisso in cui tu, Dio, e l’uomo che si uccide vi incontrate. È quell’istante che mi affascina.
Non lasciatevi ingannare. È un libro pieno di vita che pulsa. Di quella vita che, per essere compresa, si sgretola e si fa ritrovare.
Natalia Ceravolo
E tu cosa ne pensi?