Scrivere è conoscere sé stessi ma soprattutto esteriorizzare il proprio mondo interiore. Che la detenzione spinga in questa direzione, o quantomeno favorisca l’esplorazione del proprio sé, e, con questo, l’esigenza di mettersi in contatto con quello che è fuori dal carcere, è certamente un dato consolidato dalla letteratura contemporanea.

Dalle Lettere dal carcere di Antonio Gramsci all’esperienza di Rosa Luxemburg, passando per la poesia nata nelle carceri franchiste di Marcos Ana e arrivando poi, tra i moltissimi altri, a Nelson Mandela, al Nobel per la letteratura Wole Soyinka o ancora all’indonesiano Pramoedya Ananta Toer, la lista dei testi nati da esperienze di detenzione è lunghissima e comprende memoriali, raccolte epistolari, testi di riflessione politica e teorica, opere narrative o di poesia. Ad ogni modo, queste citate sono tutte pagine fondamentali per scoperchiare un universo invalicabile in cui il prigioniero si vede privato di libertà di espressione e pensiero, finanche del proprio corpo trattenuto in una dimensione in cui il tempo, ovattato e denso, assume un ritmo tutto suo.

“Qui corro contro il tempo”, afferma Zehra Doğan, in Anche noi avremo dei bei giorni, edito da Fandango Libri, in cui a dipanarsi è il racconto di una libertà negata che trasuda comunque vita, speranza, rinascita e resistenza e che raccoglie tutte le lettere che l’attivista e artista curda, nei suoi seicento giorni di prigionia, indirizza alla giornalista turca Naz Öke, impegnata nella lotta per la libertà di espressione e che a Parigi scrive sul sito di informazione Kedistan.
Questo scambio epistolare aiuta le due donne, che non si sono mai incontrate se non nelle parole e nelle intenzioni, ad allacciare un rapporto di amicizia intenso e illuminante per mezzo del quale ci si trova a discutere sulla situazione turca e, al contempo, su temi come l’attivismo politico, il femminismo, la solidarietà e l’arte intesa come canale preferenziale per combattere i soprusi e le violenze.

Zehra Doğan, in pagine accorate, piene di emozioni altalenanti e vere, dà voce a un paese oppresso, al coraggio delle donne e all’importanza dell’arte non nascondendo i momenti di difficoltà e lo sconforto (“Prova ad essere felice in un mondo come questo”) ma, affiancando a questo la silenziosa convinzione che “anche noi avremo dei bei giorni”.
In carcere, luogo soffocante che “sembra essere stato costruito tenendo conto della psicologia umana”, Zehra Doğan inizia a scrivere, disegnare, dialogare con le altre detenute vincendo così una nostalgia imperante e impalpabile e iniziando “a creare dal nulla, a creare dall’immondizia”.
Per vincere le mancanze, del resto, spesso occorre un respiro diverso. Non dimenticare il tempo bensì impegnarlo. “I miei pennelli sono le mie mani. Nella mia testa disegno ininterrottamente”; afferma Zehra che, nonostante la mancanza di materiale e i divieti, disegna utilizzando materiali di fortuna: avanzi di cibo, capelli, tè, caffè e sangue mestruale e fa uscire i suoi lavori dal carcere in modo clandestino, dando forma ai suoi pensieri, alle sue speranze, a giorni sempre uguali in cui però si annida il seme spontaneo di quello che ancora potrà essere e che nascerà, per sé e per il suo Paese, da una coscienza collettiva, non solo meramente storica quanto più umana.

A delinearsi è il binomio sofferenza-resistenza che allude a un’esperienza traumatica ma assieme alla vita e al suo diramarsi e indirizzarsi verso ciò che conta davvero fino a pensare, durante un permesso all’esterno che il vero carcere sia fuori, tra gli individui ancora inconsapevoli del significato della vera libertà. “Ho guardato il mondo. La gente andava di fretta. La vita continua. Ma stranamente non ho provato nostalgia. Ho perfino provato pietà e ne sono stata ancora più triste. Mi sono detta: Queste persone non sono consapevoli di essere prigioniere. (…) Anche loro avevano delle manette ai polsi ma non se ne accorgevano.”
“Il mondo è diventato un’immensa simulazione della vita”, ha modo di affermare Zehra che proprio in carcere dirà anche che qui “si impara a ridere più sonoramente, a essere più felici. […] Si sente maggiormente la spiritualità del mondo. Viene il desiderio irraggiungibile di sapere tutto”.
Il linguaggio, attento e scrupoloso, così come l’arte, diventa, in tal modo, una forma di resistenza e si fa sentiero di riflessioni importantissime: “Penso che il cammino passi per l’animismo. Dobbiamo sapere che ogni particella dell’universo è viva, che siamo tutti e tutte legati gli uni agli altri, che dobbiamo lottare con la consapevolezza che ogni distruzione praticata dal potere è indirizzata contro ciascuno di noi. Una vera lotta mobilita ogni istante della vita e non soltanto un giorno.”

Un libro sentito e partecipato. Uno spiraglio di vita nel buio della prigionia tanto fisica quanto mentale, essenziale per intraprendere un cammino verso la consapevolezza, un’autentica autoaffermazione che non può non coincidere con la libertà, unica, di essere sé stessi: “Il paese più felice è il mio cuore, essere me stessa, sono bella quando sono me stessa.

Zehra Doğan emoziona, illumina, fortifica e conforta ricordandoci, nel mezzo delle nostre difficoltà, piccole o grandi che siano, che “anche noi avremo dei bei giorni”.

Lorena Carella

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