Emma è un nome di fantasia che rievoca altre eroine letterarie, ma la voce narrante di questo romanzo si chiama in realtà Margherita e frequenta un liceo romano, ai giorni nostri. Puoi chiamarmi Emma, Giulio Perrone editore, è il romanzo di esordio di Matilde Falasca: una voce palpitante della nuova narrativa, già catalizzante, seduttiva. Margherita, voce narrante, frequenta l’ultimo anno di liceo e si avventura nell’esperienza della recitazione. E attraverso un esercizio consigliatole da uno psicologo inizia il carteggio con un ragazzo misterioso, mai visto. E qui si sprigiona il suo mondo.

Quando nasce questo romanzo? E da quali urgenze narrative interne viene?

Il libro nasce in piena pandemia, o meglio, a inizio pandemia, quando eravamo tutti in casa. Avevo una serie di sentimenti che volevo racchiudere in una storia che avesse dei personaggi e degli sviluppi: contestualizzare le mie dimensioni interne, forse per comprenderle meglio.

Quindi ha avuto una funzione terapeutica.
Una sorta di grande specchiera dove tu, e la tua generazione, potevate osservarvi per comprendere quel momento storico molto complesso…

Sì, certamente. C’erano dei nuclei tematici evidenti e il mio lavoro è stato appunto costruirci una storia intorno che spiegasse meglio quello che era sommerso. La scrittura è stata intensa: la prima stesura è durata un mese. Un’immersione in un momento in cui la dad era ancora stentata e vivevamo avendo molto più tempo a disposizione. Ho subito però pensato che volevo essere letta, che la storia che avevo scritto fosse condivisa. Non sapevo se ci sarei riuscita, ma ero molto determinata in questo progetto. Era diventata un’esigenza.

Chi ha letto il racconto per primo?

Mia madre. Ed è stata anche l’unica per molto tempo. Lei conosceva un’amica editor alla quale ha affidato il mio lavoro. Poi il manoscritto è passato su altre scrivanie ed è arrivato alla casa editrice, con cui, finalmente è stato pubblicato.
Non ricordo cosa mi abbia detto mia madre quando mi ha letta: ma ho bene in mente la sua espressione in cui leggevo tutto il suo essere fiera di me.

Una delle prime cose che mi ha colpito da lettrice è stato l’uso del “non so chi” nella narrazione. Un’entità che nel romanzo è speculare alla protagonista e io narrante, Margherita, e che conserva il fascino dell’amico immaginario, intriso dai residui dell’infanzia. Ho pensato al fanciullino del Pascoli: l’essere bambino che vive in noi…

Il “non so chi” in effetti c’entra con l’amico immaginario. Rappresenta le proprie emozioni, le pulsioni, le paure che tendiamo a distaccare e a personificare come appunto nella creazione di un altro da noi. La parte più vera di noi: io facevo così da bambina, crescendo, quell’amico immaginario diventa meno personificata e diventa una parte che occorre conciliare con se stessi, una scompostezza al nostro interno che bisogna cercare di riordinare.

Il tutto nasce da un disagio: Margherita attraversa un periodo di forte apatia e non sa bene quali sono le sue vocazioni, cosa potrebbe farla star meglio, cosa le piacerebbe fare da grande. Esce da questa fase nebulosa grazie a due figure: la prima è la madre che le consiglia di provare a recitare e la seconda è l’incontro con lo psicologo della scuola, Vatti che la invita a scrivere delle lettere, indirizzandole a un suo coetaneo che però lei non conosce e non ha mai visto. Quanto volevi puntare sul concetto di scegliere una strada che appassioni e poi percorrere il vettore della condivisione…

Sono partita da due schemi importanti del comunicare: recitare e scrivere. Uno riguarda l’aspetto più legato all’azione, l’altro al pensiero, al saper individuare quello che si sente e che ci piace. La recitazione l’ho scelta perché è un esercizio, infatti lei la prima cosa che fa è l’improvvisazione che non inciderà con conseguenze irrimediabili sulla propria vita, e questo permette di lasciarsi andare, di provare. Ed è così che Margherita si sblocca e parallelamente impara a parlarne, a scriverne, ricucendo una coscienza più lucida e libera.

La lettera è un topos narrativo diffuso e sempre affascinante, pensiamo ai grandi romanzi epistolari Lettere a Milena di Franz Kafka, Che tu sia per me il coltello di David Grossman, due persone che impiantano la loro relazione scrivendosi. Le parti scritte e quindi esposte sono anche quelle in ombra. Margherita racconta a Teo innanzitutto le sue debolezze.

Partire dalle vulnerabilità nella loro conoscenza è stata una scelta voluta: le persone sono fatte a strati, nello scrivere una lettera si scende a diversi strati di profondità e leggendola si riescono a comprendere degli atteggiamenti che sono alla base di un modo di essere nella realtà, quel nucleo, che poi diventa lo strumento per affrontare le complessità. Nel romanzo come ho detto c’erano diversi nuclei tematici: uno è sicuramente il non sentirsi realizzato nel contesto in cui noi ragazzi viviamo, si condivide una vita parallela quando si sta tutti insieme, ma poi, dentro c’è tutt’altro. Si vive quella vita per nascondere quasi la propria inadeguatezza nella realtà.

Un altro nodo è quello di affidarsi ai propri sogni: all’idea di poter davvero fare quello che si desidera fare, malgrado gli ostacoli, i limiti. Infine l’importanza di essere ascoltati che è il bisogno primario di Margherita: raccontare e poi richiedere risposte.

Ci sono diversi punti nel romanzo il tema dell’identità, del riconoscersi. Quanto conta riconoscersi per voi della vostra generazione che vivete nei social dalle medie e avete un modo di conoscenza molto immediata: riscoprire l’identità non sovrastrutturata ma interna, vera.

Riconoscersi è essenziale: i ragazzi vogliono esserlo perché sentono che la loro identità si realizza nel momento in cui ha un riscontro nell’altro. Come generazione abbiamo molti ambiti in cui essere ascoltati e riconosciuti: il conoscersi è scontato, immediato, e questo è un ossimoro, perché la conoscenza è qualcosa di lento che per forza di cose deve avvenire in modo graduale e riflessivo. Mi viene in mente un’immagine di quando da bambini studiavamo i fluidi: c’era questo esperimento in cui in una bacinella con un fluido se davi un pugno, c’era un blocco. Non si riusciva ad andare a fondo. Se con un dito si premeva delicatamente si riusciva ad andare sempre più giù. Ecco. Ora è tutto veloce, ma sono solo pugni. Andiamo a sbattere. Anche nel mio racconto ho cercato di tenermi abbastanza lontana dalla tecnologia.

Questo è un romanzo in cui si toccano diverse forme d’amore a partire da quello per se stessi. Cosa significa per una ragazza di questa generazione l’amore?

L’amore, per quanto mi riguarda credo si possa definire nella misura di  quanto sei disposto a vedere dell’altro. Guardare l’altro per ciò che è, e non quello che potrebbe essere solo in relazione a noi stessi.

Intervista a cura di Antonella De Biasi