Mi sono ricordata di questo libretto, una raccolta di sei poesie di Armando Saveriano e di un mio commento, in occasione della presentazione, tra amici, per il suo compleanno. Trovo le poesie molto significative in questo momento di dolore per la sua perdita. Propongo quel commento così come lo scrissi allora. Sulla bandella di apertura vi è anche un breve ma colto commento di Paolo Saggese.
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Ho dovuto consultare il mio vecchio vocabolario di latino per riscoprire il significato, dimenticato, di “perfungor, perfungeris, perfunctus sum, perfungi”. Perfuncta: compiuta interamente, adempiuta, ma anche sostenuta, “supportata”, sperimentata e, perché no?, goduta. Armando Saveriano ci offre una plaquette, di dodici pagine, soltanto sei poesie, la più recente in ordine di tempo, con un titolo complesso ed erudito, come è il suo solito. L’immagine di copertina, di Dino Valls, mostra il volto di una graziosa fanciulla dallo sguardo penetrante e incisivo, rafforzato dal dito indice della mano, rivolto al lettore. Un altro volto, lo stesso, alle spalle, fissa con lo stesso sguardo, e sembra allontanarsi, all’indietro, con le mani aperte. Un’immagine surreale, come le poesie della plaquette. “Sei tarli nel giustacuore” dice il sottotitolo e ci anticipa che l’accezione sperata, di vita goduta, non è. Un titolo dal forte pessimismo, dunque, e di solitudine. Nessun segno di punteggiatura a intercalare le righe delle poesie: uno sfogo tutto d’un fiato: “Non c’è più rosso- Ogni notte cambia il suo dolore- Troppo provato per soffrire ancora- Ho cessato di porre domande al cielo- Sospingimi eterea sospingimi- Una scudisciata nel cielo dibattuto ammutolì”. Sono i versi con i quali iniziano, in ordine, i sei componimenti poetici. Neanche un filo di luce trapela, se non quello, fioco, della prima lirica dal titolo “Sfinita la notte ed insaziata”: “… fanciulle nelle Apuane/ognuna scalza con un rocchetto di lana/e un chiaro ciotolino d’olio alla luna/s’avventa la memoria sugli usci delle case/poi alle tegole s’alza sbigottita/e filtra nei pori delle vecchie addormentate.” Ma “è sfinita la notte ed insaziata/per pochi occhi soli/e per spaziose mani/ frugifera e mendace”.
Ritorna l’immagine di copertina. La vita si allontana e non indica più, le mani sono aperte. E si è soli. Ma perché tanto pessimismo nel poeta? “Il mondo è solo una lapide che attende iscrizioni” dirà nell’ultima poesia della raccolta. Anche le liriche “Nel nulla” e “Nato da Macchina e Sfinge” sono sfogo ad altri momenti di sconforto. Toccante il ricordo di Elizabeth Eleanor Siddal, la poetessa dalla triste avventura di vita, di cui Saveriano ripercorre in “Cerimonia per Elizabeth” il sacrario in cui riflette se stesso: ”Non sono che una creatura straziata” scrivevi/Né la mia sorte potrà mutare”. Questo pessimismo, tuttavia, chiama il poeta a nuova luce, la luce della poesia, la luce salvifica, di cui egli sempre si nutre e ammaestra. Gli occhi della vita, quella rappresentata in copertina, sembrano dire: “Che cos’è la vita se non il proprio sé che s’imponga comunque sulle sorti?” E l’indice, rivolto al lettore, che cosa indica se non che la vita va guidata, non subita? Vi è una luce, anche se flebile fiammella, che non bisogna mai far sfuggire, una luce da afferrare, da rendere torcia per i propri passi. Diceva lo stesso autore in “Se poesia è verità”, una lirica che non appartiene a questa plaquette: “Avremmo se potessimo ascoltare molte cose su cui meditare”. È il caso di meditare, sì, Armando, ma con leggerezza, perché non a noi è dato di sapere quando, né quanto, la vita sia “perfuncta”, nel senso di adempiuta, come recita il mio vecchio, caro vocabolario di latino, il Bianchi, del 1961. A noi pare sia più giusto credere che la vita debba essere sostenuta, supportata, sperimentata, nell’altra più convincente accezione del termine, e quindi goduta.
Agostina Spagnuolo
Non altro sentore avendo
Una scudisciata nel cielo dibattuto ammutolì
la vita invisibile il bosco da dove erano sparite
le farfalle elettriche i capelli di feltro seminati
dalle scimmie frettolose gli occhi rovesciati
dei sognatori di nuvole Strano sentirsi profughi
e nessuna memoria di quanto s’era abbandonato
Affacciati al parapetto di questa amnesia
dolevano le braccia pungevano gli odori
di creature indefinite leste braccate
Una delle muse si sbarazzava
della calza sfilata tu soffiavi con zelo il fiato
in una carcassa come fosse una bottiglia
rotolata da un cespuglio
Il mondo è solo una lapide che attende iscrizioni
Dio dimora nella succulenza delle anime
visitando la sua residenza all’inferno
Tacemmo non avendo altro sentore che la pelle
la luna l’arabesco dei rami i sudori della notte
Armando Saveriano
7 Febbraio 2022 at 18:25
magnifica,ma di Saveriano ho letto anche di meglio