Dopo che tutto è passato di moda, dal romanzo realista a quello introspettivo, dallo stile alla sua rottura, dal dialogo al monologo in tutte le sue variazioni, dall’avanguardia alla nuova avanguardia, dall’armonia alla disarmonia, l’opera letteraria resta quello che è sempre stata: una tenace costruzione del sé (magari anche per salvare noi stessi), quella cosa a cui in fondo ci dedichiamo tutti noi, chi in modo cosciente, la maggior parte abbastanza incoscientemente, seguendo sentieri infinitamente diversi. Eppure, solo alcune vite diventano un’opera d’arte (parafrasando Foucault). L’oggetto di questa iperbole dell’io che è la letteratura dovrebbe essere una coscienza più che una identità, divenuta oggigiorno forse troppo decorativa e superficiale. Una coscienza ovvero qualcosa di davvero profondo, assieme a quel frammento di realtà o esperienza che quella coscienza si porta conficcato dentro, in un punto preciso: quel frammento di realtà che spesso esiste e si sperimenta nonostante il linguaggio, e spesso contro il linguaggio, perché quel posto dove nessuno ti ha portato, quella cosa lacerante che si sente, che sentiamo di essere non ha un nome, non è ancora stata descritta. E dunque l’urgenza di crearla anche per mezzo delle parole. Ma per questo ci vuole tempo e sedimentazione (mentre il mercato editoriale corre).

Come in ogni costruzione psicologica, anche la costruzione del sé per mezzo della letteratura si muove continuamente tra percezione, proiezione e sublimazione. Il narcisismo ne è un elemento forte (a volte troppo forte) ma questa compiacenza, peraltro, così umana dovrebbe sempre essere riscattata da una forma più nobile di resistenza ed “antagonismo” (Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica). Alla fine della corsa poi lo scrittore dovrebbe ritagliare anche quella famosa visione del mondo (quella totalità, generalità, universalità, trascendenza, termini del resto abbastanza antiquati, quasi scorretti e sospetti assieme ad altri due: verità e realtà). E questa dovrebbe oscurare il suo eroe. Una “visione aerea” (dice Sontag con parole più leggere e moderne, a proposito di Nathalie Sarraute) deve pur esserci. Gli strumenti per costruirsi e quindi ricostruirsi sono molteplici: dalla memoria (Annie Ernaux), alla metafora (dalla letteratura fantastica alla rielaborazione originale di Chiara Valerio) alla bugia (qui citerei Teresa Ciabatti). L’io si perde e si ritrova nei personaggi, nell’alter ego o voce narrante che è soltanto un altro personaggio; l’autobiografia si riversa nella finzione, la biofiction nell’autobiografismo; dalla menzogna che spesso è più veritiera di qualsiasi verità, alla verità che è soltanto un’altra menzogna; dall’etica che non può essere un altro conformismo, al male che è soltanto l’altra faccia del bene. In Blindness and Insight, Paul de Man scrive che l’opera letteraria nasce proprio dallo scarto (divergency) tra l’autore immanente, e l’io che sorge dalla spuma dell’opera. È così, ma pure mi piace pensare che questa divergenza o distanza tra l’io empirico e quello costruito sia piuttosto una confusione, un sangue meticcio. Ed il romanzo quindi una specie di immersione più che introspezione: un magma in cui meglio non fare troppe differenze.

Elsa di Angela Bubba è soprattutto la sua autrice in un inseguimento che è sempre una fuga e in cui Elsa Morante è soltanto una specie di miraggio. Dunque, c’è e non c’è, abbaglia e delude, è lì eppure resta inarrivabile, è proprio lei a volte, altre ma no, non è possibile, lei non l’avrebbe mai detto, questo poi non l’avrebbe mai pensato. Il luogo di questa costruzione ha i contorni di una stanza, uno spazio claustrofobico in cui i sentimenti e il mondo interiore della protagonista restano dentro, sbattono contro i vetri della finestra, li rigano, e scivolano giù nell’anima. “Subito dopo i vetri iniziano il cielo e la vita, il mondo insudiciato dal sole”. Dove il segreto dell’altro rimane ignoto ed intatto e le tinte opache piuttosto che vivide. Come deve essere.

Il luogo dell’azione non è Roma, né il Testaccio dove la famiglia Morante si trasferì quando Elsa era piccolissima. Quel casermone famoso del quartiere popolare in cui Elsa Morante trascorse la sua infanzia forse non era poi così umido e fatiscente come lo descrive Angela Bubba. Non è l’impressione che ne ebbi quando tempo fa mi affacciai in quel cortile di via Vespucci, ma soprattutto ascoltando il racconto che Maria Morante, la sorella minore di Elsa, me ne fece un’estate di qualche anno fa, aprendomi la porta del suo appartamento e lasciandomi commossa per la somiglianza con quella Elsa delle ultime foto, quelle scattate da Raffaele Venturini. Quel casermone di un rione popolare era stato fatto costruire dal sindaco Ernesto Nathan, ebreo nato a Londra che si impegnò per l’alfabetizzazione assieme a Maria Montessori. Le stanze erano spaziose e di recente costruzione. Al piano di sotto di uno dei caseggiati, mi raccontò Maria, sindacalista nell’anima, c’era anche uno dei primissimi giardini d’infanzia. Quello stesso pomeriggio, Maria Morante mi assicurò anche che le estati sull’Adriatico, in quelle villeggiature finanziate dalla madrina della Morante, Donna Maria Gonzaga Maraini, i fratelli Morante lasciavano Roma soli con la madre, Irma. Così la passeggiata in spiaggia tra Elsa e suo padre Augusto, quella immaginata da Bubba, probabilmente non avvenne mai. Eppure, quell’incontro, che è come un sogno livido e smagliante, in cui si confondono il sogno di Bubba e quello di Elsa, in cui Augusto indossa al polso un orologio, che è un amuleto, che è un segno dell’Isola di Arturo, quell’incontro è di una grande bellezza proprio perché avviene fuori dal tempo e dallo spazio, e dalle logiche della ricostruzione biografica, in un luogo altro.

Questo luogo non sarà neppure l’appartamento di via dell’Oca dove Elsa visse prima con Moravia e poi dopo la separazione assieme alla domestica Lucia. Non è via Archimede, l’appartamento in cui ospitò Bill Morrow, quel giovane pittore, americano non cis, non eterosessuale, malato di epilessia, e di depressione di cui Elsa si innamorò. Non è la clinica in cui si spense. Il luogo dell’azione, dove tutto avviene e il romanzo si svolge, è solo la mente, in cui i pensieri si incurvano e si ripiegano gli uni sugli altri. E questa mente che a volte sembra troppo cupa, dai toni rossi e violacei, in cui i ricordi sono spine di silenzio ed i sentimenti bestie che risalgono le vene, restituisce tutta l’ossessività, quella pulsione tragica ed eccitata che agitava questa grande scrittrice del Novecento.

Se il luogo dell’azione è la mente, la sua protagonista, sin dall’inizio della storia, non solo alla fine, oramai disperata ed ammalata, non è mai del tutto una persona, “Forse è già solo un ricordo, un fenomeno giallognolo sull’orlo della sua stessa vita.” Sull’orlo della storia che leggiamo c’è un’anima, quella che sta sotto la pelle, un’anima infelice. Una donna assolutamente convinta di essere un poeta, di vedere quello che gli altri, alienati dalla società della demenza, non erano capaci di vedere, votata ad una missione e dunque al sacrificio. Tragica e disperata a cui però bastava un nome, che ricordava una storia, semplice ed universale, un gesto fanciullesco ed eroico, una parola feroce e innocente, il mare con quel suo colore definito a sollevarla e a farla cantare.

Bubba ricrea la tormentosa storia d’amore con Moravia, e lo fa al filo di un dialogo interrotto tra i due scrittori. Ed immagina quella distanza e vicinanza tra Morante e Moravia che altrove, anche nelle interviste concesse da Moravia a Paris, al suo biografo Elkann, ma anche nella biografia di De Ceccatty, o Lily Tusk, si è sempre fermata al pettegolezzo, all’aneddoto e alle peripezie. E la distanza che era una profonda differenza di carattere e di esperienza vitale, al di là dei tradimenti, della gelosia, e dei veleni quotidiani, la differenza ma anche il legame sono pienamente restituiti in questa scena intima. Moravia, oramai lontano, nell’appartamento sul Lungotevere della Vittoria, con la sua nuova compagna di allora, Dacia Maraini, scambia delle parole con Lucia a proposito di sua moglie, che è a letto, malata nel corpo e nello spirito. Elsa che ha appena tentato il suicidio. Conosco Elsa è tirannica, è una creatura fatta di sola meraviglia. E poi, qualche pagina più in là, in quel breve scambio di battute, Moravia che chiede senza capire il discorso che gli sta facendo quella che rimase fino alla fine sua moglie: ed io che dovrei farci? E la risposta di Elsa: imparare.

Arturo, il protagonista dell’Isola, diventa invece un’esistenza più concreta di tutte le altre: il figlio mai nato, quello che comunque resta (se gli antiabortisti lo sospettassero!) di quel lontano aborto che Morante affrontò da giovane, in quegli anni ancora abbastanza misteriosi, prima di conoscere Moravia. Arturo che la segue come uno spettro, o che è lei a inseguire. Come nel romanzo Winter di Ali Smith, la piccola pietra di Barbara Hepworth che Sophia custodisce come uno spirito tutelare e a cui parla. È un’allucinazione, e come tutti i miti di un mito, può risultare magari ingenuo o fastidioso, eppure Bubba li porta entrambi, Elsa e Arturo, mano nella mano, a quell’immagine potente, tenera e vera: “Arturo fissa attonito sua madre. Forse sta morendo. Forse è già morta”. Arturo per sempre morto e per sempre vivo.

Ci sono delle cose nella vita di Elsa Morante che sicuramente non sono andate così come raccontano alcuni dei suoi biografi. Difficile credere che una Elsa, appena ventenne, stravolta per l’aborto volontario appena deciso e subito, si confidi, come immagina Bubba, ad un calzolaio, Franz, immigrato tedesco, in un basso, su una stradina di sanpietrini sotto quella casa in cui vive da sola. Mi riesce davvero difficile immaginare che ne abbia potuto parlare poi alla madre, quella donna da cui Elsa si allontanò con tutte le sue forze senza mai rinnegarla anzi difendendola con tutte le sue forze nei suoi romanzi, solo lì dove poteva farlo. O forse sì, in fondo, lei non le aveva confessato che Augusto non era suo padre? Non si era forse giocato tutto lì sul desiderio di maternità e sulla sua negazione? Quell’aborto la cui confessione è nascosta in filigrana in due sogni del diario che tenne nel 1938, quell’aborto, nonostante la distanza favolosa del tempo, non riesce nemmeno più a confessarlo a sé stessa, non perché l’abbia superato, ma perché l’ha rivissuto ad ogni addio, ad ogni personaggio-bambino che ha ricreato. Di quell’aborto forse non riuscì a parlare nemmeno all’amica di allora Luisa Fantini. Nei primi anni Trenta, Elsa Morante lascia la casa familiare di Monteverde nuovo. Questi anni fino al 1936 quando poi conosce Moravia, sono avvolti nel mistero. Sono anni bui. Ed Angela Bubba ne restituisce e rielabora tutta l’oscurità. In questi anni di camere d’affitto gravitano attorno a lei una cara amica Luisa Fantini, innamorata, ma troppo brava ragazza per sedurlo, di Guelfo Civinini, quel critico letterario, più anziano di Morante e dell’amica, già sposato, che Irma, la madre della scrittrice, aveva spinto Elsa a frequentare. Moravia racconta che Elsa gli aveva raccontato di due relazioni di quegli anni che precedettero la loro unione: una con un uomo più anziano e poi quella con un inglese. L’uomo più anziano potrebbe essere stato proprio Civinini, oppure un aviatore belga, di stanza a Roma, proprio in quegli anni, e conoscente di Luisa Fantini e di Guelfo Civinini. Di nuovo Civinini. Gravitano attorno a lei, Luisa, Guelfo Civinini, e l’aviatore biondo Willy Coppens, un aborto spontaneo (Maria Morante non esclude che ce ne furono altri), i sensi di colpa, la necessità di un perdono e padre Tacchi Ventura, che l’aveva battezzata, sempre per intercessione di quella madrina influente che Irma le aveva procacciato. E poi l’inglese, quel Riccardo o Beautiful, lo stesso del triangolo amoroso, che avrebbe poi raccontato a Moravia, mentendo qua e là. Sui margini ci sono Capogrossi, nipote del padre gesuita che Elsa vede in confessionale, alla chiesa del Gesù, e con cui ha una corrispondenza più fitta in questi anni, e gli altri della Boemia romana, che d’estate si riuniva sul fiume Tevere, nello stabilimento Tofini. È una rete oscura, miserevole, in cui Elsa non si muove come una ragazzina, o una “creatura antiumana” raminga, ma come una donna, che ha deciso di risolvere da sola i problemi di una vita quotidiana al margine, di molti stenti, ignara e allo stesso tempo molto consapevole della propria femminilità, una donna che sa dove vuole arrivare.

Eppure, quel calzolaio, l’immigrato Franz, che le consiglia di non pensare troppo a quello che è successo, di bersi un brodo caldo, non è un personaggio di un romanzo, verosimile oppure no. Anche lui è soltanto uno spettro di un romanzo che si svolge in una Roma spettrale, in una fantasmagoria, nella mente della sua protagonista, come spettri sono già la madre, e Augusto, Bill, Arturo: simboli dell’inaccessibile mondo morantiano, del suo esilio. Ladri di lumi, a cui, in fondo, tutto si può confessare.

Silvia Acierno