L’azzurro è il colore del cielo e degli occhi di Beatrice, la protagonista di Azzurro Amianto. Ma è anche il colore, apparentemente innocuo, di una polvere sottile e letale. Indistruttibile.
Il titolo, di ossimorica pregnanza, preannuncia una storia che trae ispirazione da una vicenda di drammatica attualità, quella dell’Isochimica (nel romanzo denominata Newchemistry), fabbrica impiantata nella città di Avellino nei primi anni ’80, direttamente a ridosso del popoloso rione Ferrovia. Gli operai che vi vennero impiegati per scoibentare le carrozze ferroviarie provenienti da tutta Italia si ammalarono e in seguito morirono di patologie correlate alla prolungata esposizione all’amianto.
È questa una storia che si vuole dimenticare e nascondere, come si fa con la polvere sotto al tappeto. Come fa Beatrice con Bianca, la figlia dal grave ritardo cognitivo con cui non sa relazionarsi. Decisa a distaccarsene, la protagonista lascia Firenze, dove da anni vive e lavora come antiquaria, per tornare ad Avellino, sua città natale. Una volta a casa, si immerge nella vita vuota e ovattata da cui era scappata da ragazza, riallacciando i rapporti con Maria Nives, una cugina altoborghese che la coinvolge in un’opera di carità per conto dell’associazione di cui è presidente: aiutare il parroco del rione Ferrovia a strappare due donne apparentemente folli, Matilde, più anziana, e Ausilia, più giovane, dalla littorina abbandonata in cui hanno preso a vivere. Beatrice si cimenterà nell’impresa, nonostante la ritrosia iniziale, attratta dall’idea di “fare qualcosa di concreto, almeno una volta nella vita” (p. 60). L’indagine sulla storia delle due la porterà sulle tracce di Romualdo, un giovane operaio irpino che aveva perso la vita a causa dell’amianto e che della sua storia aveva lasciato un diario.
È una storia di ritorni ai luoghi del cuore e alle radici di sé. Senza sconti. L’autrice riesce a entrare nelle profondità psicologiche dei personaggi con asciutta autenticità, senza cedere alla tentazione di edulcorare le vicende, perfino nei momenti di giusto e necessario alleggerimento delle tensioni che innervano la trama. I personaggi attraversano le proprie esistenze con tutto il proprio bagaglio di fragilità, cercando dolorosamente di risolvere il dissidio tra accettazione di un destino apparentemente ineluttabile, che assegna dolori come una roulette che “più speri, meno ti dà il numero che hai giocato”, e una volontà di opposizione e riscatto, che li porta a identificare negli ostacoli della vita i germi di un necessario cambiamento.
L’autrice, in grado di passare in modo repentino da una lingua cristallina e limata alla mimesi del dialetto irpino e alla spontaneità del parlato, ben riesce a rendere il mix di sentimenti – paura, speranza, desiderio di vivere, amore, coraggio, disperazione, dolore – di chi si trova di fronte all’ardua scelta di morire di fame o di lavoro, di vivere da burattino o da protagonista, da vinto o da combattente. E molto felice è la scelta di affidare alle parole – quelle scritte nel diario di Romualdo, quelle taciute a lungo e poi finalmente pronunciate – la salvezza dei personaggi: di Beatrice e Bianca, di Matilde e Ausilia, di Renato e Oxana, tante vite vorticanti come pulviscolo alla ricerca di un ubi consistam che troveranno, in modo a volte doloroso, in un sentimento importantissimo: quello della cura. Di sé, degli altri, del proprio territorio. Riscoprendo un tipo di carità che è innanzitutto “vedere il prossimo senza aver paura” (p. 46), ascoltando e agendo nella concreta tenerezza dei gesti quotidiani.
Lungi dall’essere un romanzo meramente “ambientale” o di genere, Azzurro amianto assume i tratti del romanzo di formazione e di quello propriamente civile. Si tratta, infatti, di una storia che ci ricorda non solo di come di lavoro, di incuria e di malaffare si possa morire, ma anche di come la carità, intesa come ascolto e cura concreta del prossimo, possa vivificare la coscienza collettiva e divenire scintilla di rinnovamento. È una storia che inchioda alla responsabilità di essere cittadini attivamente responsabili, sentinelle di una religione della cura a cui non è più possibile sottrarsi.
Maria Consiglia Alvino
E tu cosa ne pensi?