Red is an affirmation at any cost – regardless of the dangers in fighting – of contradiction, of aggression.

(L. Bourgeois)

Questo testo, se potessi, vorrei proprio cominciarlo come una lettera, con un “cara Antonella”. In questi giorni vorrei anche scriverne un’altra di lettera. Comincerebbe con cara Michela. In fondo anche Michela Murgia sta raccontando quello che non si racconta: la malattia che fa parte della vita, il dolore che ci sarà comunque e che sarà troppo comunque, ma che possiamo accogliere, senza tacerlo, senza sentirci per forza ostaggio di qualcosa anche della nostra stessa carne. La scrittura è l’occasione per essere presenti a noi stessi, è tutto il contrario del pudore, dell’inibizione, soprattutto quando quel pudore e quella inibizione sono bavagli socioculturali. L’arte è un’occasione di svelamento, che non ha niente a che vedere con le verità o le bugie. Ma con quel video in cui Murgia si rasa il cranio in un gesto quasi scaramantico che certo è diventato una moda sui social, quasi un rito collettivo per esorcizzare la paura (perché le immagini hanno una loro logica inevitabile, ce lo insegnava già Sontag nelle sue riflessioni sulla fotografia, una spirale in cui devono essere sempre più scioccanti e disturbanti). Ma non è il caso di questo video, che è anche un atto politico (ce lo ricorda Loredana Lipperini) ma soprattutto una cerimonia, una lunga cerimonia dell’addio, in cui la scrittrice mi sta mostrando gli occhi che si smarriscono per un attimo, l’aria che entra e il sorriso, imprevedibile, inarrestabile dell’adrenalina. “Riempimi tutta, entra dentro di me, sommergimi”, scrive Antonella Lattanzi. Vorrei trattarle con la stessa intimità con cui potrei rivolgermi ad una buona amica, senza ipocrisia, disposta ad ascoltare, a dare un buon consiglio, e quando le parole non servono più, sostenere lo sguardo, essere disposta al passaggio delle emozioni. E basta.

Cose che non si raccontano non è un libro sulla maternità, ma un romanzo che vuole rendere “reale”, “più reale” la maternità (quella unica di ognuno di noi, madri e padri). In L’ospedale Henry Ford, Frida Khalo ha dipinto un letto che occupa quasi l’intera tela, tanto pesante da non poter proprio dirsi che stia volando, quel letto la inchioda assolutamente lì. Tutto intorno alla rete è inciso come un ricamo JULIO DE 1923 ER HENRY FORD HOSPITAL, DETROIT. Giorno e luogo dell’aborto, come in una lapide (l’osservazione è di Melania Mazzucco, in Self-Portrait). Sulle lenzuola bianche c’è Frida, una lacrima più grande della guancia, il ventre ancora gonfio, sei simboli legati a lei come palloncini, che sono altrettanti aborti, altrettanti desideri e altrettante colpe. Antonella Lattanzi fa finalmente sulla pagina quello che ha fatto Frida sulla tela: intridere le lenzuola di sangue, un’emorragia senza fine. Quella che viene prima e quella che viene dopo il raschiamento dell’utero, per togliere ogni residuo di speranza, ogni residuo di sogno, di umano, quella che inzuppa asciugamani che non bastano mai, quella che neanche lo zaffo riesce a bloccare. Questo romanzo è scritto con inchiostro rosso, l’avevo già detto altrove, il colore delle emozioni forti e del dolore; scorre l’inchiostro malvolentieri anche se tu trattieni, perché rifiuti che sia successo, non vuoi che sia successo proprio a te.

Sono gli anni del Covid, Lattanzi sta per pubblicare il suo precedente romanzo (Questo giorno che incombe), il romanzo esce, si susseguono le presentazioni in remoto, gli impegni con la casa editrice, la corsa emozionante al premio Strega, una buona parte di vita investita nella scrittura. Ha un compagno, sceneggiatore, impegnato sui set, che le sta vicino ma mai fino in fondo, come fanno i nostri compagni con la scusa del lavoro sempre pronta, quell’incapacità di prendere certe decisioni salvo rinfacciarti tutte le responsabilità, tanto il corpo è tuo, tanto “lo sai tu”. Quasi quarantenne vorrebbe avere un figlio ma sarà troppo tardi. Troppo tardi, a queste parole lei tirerebbe calci se fossero barattoli, le lancerebbe contro la parete con tutta la forza che ha in corpo, per farle a pezzi, annientarle. E che non resti niente.

In Why I write, Orwell scrive: “All writers are vain, selfish and lazy, and at the very bottom of their motives there lies a mystery. Writing a book is a horrible, exhausting struggle like a long bout of some painful illness”. C’è anche un po’ di questo nella scrittrice protagonista di questo romanzo (soprattutto l’ambizione). Ma Lattanzi aggiunge che scrivere può essere anche così terribile come una maternità che non si realizza, che la maternità è il contrappeso a quel desiderio (libro salvami, libro scusami, questo libro che agisce su di me): un’ancora (ora che le bambine non ci sono più) o una zavorra (quando le ha impedito di fare figli allora). (Cos’è un romanzo davanti a tutto questo dolore? Niente, si chiede e si dà una risposta, tra parentesi). Questo Orwell non lo poteva pensare, non perché fosse uomo ma per quella visione maschile che ha confezionato la maternità come un’esperienza che ha a che vedere con la procreazione non con la creazione, una cosa delle donne, fisiologia, roba di cui non si parla.

Lattanzi, come ha osservato Domenico Starnone nel suo testo, La solitudine della carne, non sta solo mettendo la donna in quel posto così scomodo in cui è sempre stata: al crocevia tra scrittura e maternità, tra passato (la giovinezza e quella fertilità sovrabbondante a cui hai voltato le spalle perché non era ancora il momento e c’era tanto tempo davanti a te) e il desiderio estremo di oggi, della donna matura di avere un figlio; tra natura e scienza (che non riesce mai a domesticare la natura); tra stupide credenze, quelle di ieri, e quelle di oggi; tra sensi colpa (quelli che ti sono entrati dentro assieme al materiale genetico) e quelli che ti assalgono da fuori ( le infermiere che non ti ascoltano, l’obiezione di coscienza). Tra quello che siamo (per diritto di nascita) e quello che ci dicono che dovremmo essere (unico senso possibile alla tanto ripetuta frase di Beauvoir).

Ma in qualche modo ci sta dicendo che qui, in questo posto scomodo, non si possono sollevare muri (come vorrebbe fare questo femminismo imbevuto di vocaboli americani, da barricata e lacrimogeni, che si indegna ad ogni frase, ad ogni attacco). La diga, quella che ci costruiamo noi (le piccole inibizioni che diventano enormi, gigantesche come una palla che ruzzola), specchio di quella che viene da fuori, va abbattuta. Quelle cose, anche se non voglio, si possono raccontare.

Cose che non si raccontano è una autofiction talmente autobiografica da essere già qualcosa in più di una autofiction (più vicino alla “confessional poetry” di Sylvia Plath o Anne Sexton): in cui non si racconta solo un’esperienza personale, davvero intima, ma ti forzi, ti costringi a dire la verità, senza censurare niente, per portare sulla pagina quell’inenarrabile che è accaduto dentro di te. Un dentro di te che sta assolutamente ed iperbolicamente dentro di te. Non è la vita, il suo scorrere esteriore con quella spia cerebrale sempre accesa che ti guida e ti dice che quello che stai vivendo e facendo è reale oppure no; né il sogno in cui quella spia non lampeggia, va in off, e allora tutto ciò che non esiste diventa intensamente reale anche se per pochi istanti; ma è quella cosa che scorre sospesa, tra fuori e dentro, in cui la spia (almeno per Lattanzi) è quel pensiero magico, scaramantico, per cui tutto ciò che pensi anche le cose peggiori potrebbero avverarsi, in cui continui a sperare anche se niente è normale, niente è come dovrebbe essere; allora meglio tacere, tenersi tutto dentro ed arrivare in quel punto che sta ancora più dentro, nell’oscurità più oscura, dove la speranza non è verde ma “è nera” tanto quanto la disperazione. Nel posto inaccessibile dei sentimenti primordiali, dove il pensiero si fa di terra. Lì nel fiume della nostra coscienza dove c’è anche quel desiderio di maternità (in tutte le sue possibilità) che fa parte di noi, comunque, quando è vivo e potente come quello di Lattanzi, quando è cieco e inascoltato. Lì dove parli con te stessa (la te stessa nelle parentesi, che ti sfida ad essere più sincera) come una matta.

Un nuovo genere perché quando tratti la materia incandescente questa prende forma e la forma si modella come non te l’aspettavi. Non saprai mai (chi poi non deve sapere?) eppure te lo sto dicendo.

Lattanzi fa a pugni con la forma, una lotta estenuante con la forma, con la pagina, con il desiderio di scrivere e l’impossibilità di farlo. Racconto o non racconto, mi faccio ancora del male oppure no. Sto dentro o fuori delle parentesi. Mi svelo o mi svelo ancora di più. Gli arresti, i ripensamenti, le righe che si riducono, poche linee, alcune pagine restano quasi bianche, per infittirsi poi di nuovo. Perché scrivere non serve a ricordare (sì, anche, ma non qui, non solo) ma piuttosto a cancellare, ad “eliminare” il file, le foto, le immagini. Perché c’è una parte di noi che non ce la fa più, che ha bisogno di riposo, pace. Non ce la fa più con l’ansia che finisce ma poi ricomincia come il giorno e non finisce mai. Come dover scrivere con un alfabeto di cui si possono usare solo alcune lettere, non per una vana ricerca stilistica, ma perché ci sono emozioni che restano giù, che proprio non ce la fanno a salire, e allora ci sono delle parole che non si possono scrivere, e allora la pagina deve restare bianca.

Contro la memoria che funziona per singole-immagini, congelate, bellissime e atroci, Lattanzi cerca un racconto che le unisca. Quando trascrive la cartella clinica della storia della sua gravidanza, la trascrizione della realtà, fotografia asettica di tutto quello che è accaduto, dell’incontrovertibile realtà, il battito delle tre bambine, e l’assenza di battito dopo la “rimozione”, una, due, tre vote, una, due, tre vite, c’è la scrittrice che con tutto il suo corpo -e la scrittura che è un fluido del corpo, l’inchiostro è altro sangue-, ci dice che quello che è accaduto è anche altro, che c’è stato amore, dolore, colpa, violenza. Che quello che c’era non c’è più. Che non si vince e non si perde. Che non c’è sempre lieto fine. Che la letteratura è tutto il resto: la possibilità di allentare le maglie di quella spirale che è il nostro mezzo busto, di convertire il sangue in adrenalina, la possibilità di raccontare.

Silvia Acierno