“Credo che quella torsione stia ancora durando e durerà finché vivo, o meglio fino a quando continuerò a pensarci e a raccontarla” (D. Starnone Via Gemito)

Questo testo non può che cominciare da un’altra bara, quella di un’altra poeta, poeta come Ilaria Caffio. È la bara di Ancestrale la prima opera di Goliarda Sapienza. La bara è il lutto che bisogna fare e mettere ossessivamente in scena per raccontarsi. È la bara dove Sapienza seppellisce per la seconda volta il corpo dei genitori, Peppino Sapienza collassato tra le braccia di un’amante, morte eroica grottesca e grandiosa, e la morte ancora calda della madre Maria, soprattutto della madre, con cui Sapienza si era trasferita a Roma per studiare recitazione vent’anni prima. Da quella bara che tutti (lei no) hanno fretta di chiudere, nascerà Modesta, la storia delle storie, rinascerà quel balcone del tempo dell’infanzia con l’inferriata da cui Goliarda è “precipitata” nel mondo del quartiere Berillo dove tutto in qualche modo si è già compiuto.

Anche Ilaria-narratrice (cioè quell’io che scrittrice e narratrice condividono in queste nuove traiettorie della scrittura autobiografica, o auto-fictional, in prima persona) è come rovesciata dalla scena che ci sta raccontando, caduta senza discernere il presente dal passato, l’io da quel lei protagonista del romanzo, in quella casa squallida e scordata che puzza di vecchiaia e di malattia, ma anche di altre cose, di incapacità, di mancanza di volontà ed energia, mancanza di soldi, di idee.

“Ascolta non c’è parola per questo non c’è parola per seppellire una voce già fredda nel suo sudario di raso e gelsomino”, scriveva Goliarda; “bara di seta” intitola Caffio il suo romanzo edito per Solferino: la sottile differenza tra un tessuto compatto ed una secrezione animale. Ma chi c’è in questa bara? La sorella dal destino gemello, la madre, amata di quell’amore che da bambina ti aggrappi alle sue gambe e stringi fino a perdere conoscenza, e odiata fino a sognare di ammazzarla, o Ilaria che cerca un puntino, una scheggia luminosa? O ancora quell’io narrante così composito, raccoglitore di tante piogge, filamento di ricordi (te lo ricordi? Chiede Ilaria alla madre), bugie (“Non parlare di te continuare a nasconderglielo”) e residui.

Tra le quattro mura di una casa semivuota, il respiro di Ilaria si fa denso e la lingua cerca la sua strada. E mentre spia la madre, creatura disadattata e misteriosa, nella cui figura si è addensata la notte e pure il giorno, sul crinale del ricordo e del sogno, Caffio racconta questa storia: “Mamma è stata una contraddizione, mamma era soffocante e distante, e tu non lo vedevi, mamma si è dimenticata di me”.

Due sorelle che condividono tutto, pure il respiro, un patto sigillato dal sangue di quelle feritine sui polsi, strette l’una all’altra, enigmaticamente incastrate e avvinghiate in un’anta dell’armadio, nella stanzetta dal tetto spiovente, a spiare gli adulti, coppia genitoriale che ha fatto male, molto male, ma anche bene. Quattro figure separate, dalle individualità impenetrabili eppure contigue, irrimediabilmente contigue, anzi inserite una nell’altra, come bambole tradizionali, legate da quello strano amore che si nutre di odio. Anche noi lo conosciamo.

Ilaria Caffio è sulla copertina con i capelli al vento, nella bocca proprio come scrive nel romanzo, perché questa storia è più che scritta da Caffio. C‘è qualcosa che va oltre la scrittura, la combinazione esatta e bilanciata delle parole, le intenzioni, i ricordi che sfociano nella creazione, come un’altra penna con cui Ilaria scrive la storia che ci racconta: l’anima, il cuore che non so se sono la stessa cosa. Un oggetto pesante e potente con cui sfondare un muro. Un fantasma che si aggira per una casa vuota o che si lascia bucare dai pochi oggetti di una casa che è una bara tra corpi svuotati, pigri, egarés.

Bara di seta, come esordio (anche se Caffio ha già pubblicato un racconto per i Pavoni di Solferino ed è autrice di poesie) mostra i battiti del romanzo e le potenzialità di una storia in prima persona, che è quel tassello in più oltre la vita e la finzione (né autofiction né fiction a trecentosessanta gradi) e le loro possibili combinazioni; gli equivoci della prima persona narrante che a sgranarla contiene altre persone, suoni, odori. Il racconto non cristallizza quello che è successo, quel poco che è successo, non lo analizza, esplora millimetro su millimetro, si fossilizza sui dettagli senza arricchirlo. Piuttosto lo dissipa, continua a sciupare quello che si è sciupato da solo, con l’alfabeto preciso di chi è abituato ad usare il linguaggio come poesia.

Le scene si succedono mentre Caffio cerca di afferrare l’unica scena che continua a sfuggirle: l’immagine della sorella, che è solo la misura della distanza dalla madre, che si avvicina e si allontana, non si lascia mettere a fuoco. “Adesso mi resta solo mamma”. C’è qualcosa che si sposta continuamente, come l’estate, come le stagioni, come la pagina, che non è questa ma quella che verrà, un nuovo quaderno su cui scrivere “belle notizie”. Perché la scrittura come la vita sta dietro e sta davanti, è un pensiero irregolare, non è mai centrata: una torsione. Quel gioco rabbioso tra il fulgore e il vuoto.

Silvia Acierno