Tutto ha inizio durante le celebrazioni del 25 aprile del 1986.

Quel giorno di aprile – oggi non più – sapeva riunire nella vigile commemorazione un intero popolo nelle sue diverse generazioni, mentre una parte di esso probabilmente mugugnava nel silenzio e, se c’era il calendario favorevole, ne approfittava per farsi un ponte. Quel 25 aprile Nuto Revelli ritrova alcuni suoi ex compagni di lotta e, pungolato da una storia opaca che risala a oltre quarant’anni prima, comincia a porre domande ai suoi interlocutori senza essere incalzante ma convinto che le parole usciranno da sole perché sente il bisogno di chiarezza.

Revelli è del resto un mito vivente per la cultura italiana novecentesca che si riconosce nell’Antifascismo e nella Resistenza. Reduce della campagna di Russia e poi partigiano nel cuneese durante l’occupazione nazista è stato autore di opere di memorialistica imperniate sull’oral history della guerra, nutrita di testimonianza e di reticenza, e cantata da quelle voci contadine disperse nel tempo ma croniste di un’epoca. Una figura, quella dell’ex partigiano, animata dal superamento del passato: non nel senso di andare al di là di esso, relegandolo nell’oblio in quanto passato, ma di riattraversarlo costantemente come eterno presente nelle sue pieghe più recondite e meno note, stimolando, con il nitore della sua prosa ragionata, coscienze e conoscenze.

Tra riferimenti vaghi, inconsci, e parole dette a mezza voce dai suoi interlocutori, egli si imbatte nella notizia di un «tedesco buono», di un cavaliere solitario che era solito girare a cavallo di buon mattino in quelle zone non lontane dalla tristemente nota Boves. Per alcuni un uomo, per altri un ragazzo, che chiacchierava con i bambini e offriva qualche sigaretta ai contadini che incontrava nel suo tragitto. Una presenza dunque innocua e, a dispetto della divisa indossata, nient’affatto disturbante in quella terra, eterna polveriera, costantemente violata da occupazioni, rastrellamenti, rappresaglie e tradimenti. Revelli ascolta tutti e aggiunge materiale a quello che già sa. Resta la convinzione che tutti i tedeschi di allora, SS o meno, non fossero uomini ma bestie, perché quando il Male ti afferra e ti stritola diventa difficile dargli un volto diverso. Tuttavia non riesce a non pensare a quel tedesco, in fondo, diverso, a quella nota di disordine nell’ordine delle sue certezze. E allora, coerentemente al suo modus operandi, indaga ma pone anche sé stesso al centro della ricerca:

«Ciò che accendeva il mio interesse era il gioco della memoria, il contrasto tra la mia verità e la verità degli altri. La guerra rivisitata cinquant’anni dopo, questo il tema che prendeva forma a mano a mano che il discorso saliva di tono, cresceva. Io ascoltavo tutto, anche se percepivo che il tarlo della «mia» guerra riprendeva a scavare».

C’è dunque qualcosa che non torna. E per molti scrittori ci sono libri a cui, in qualche modo, si deve arrivare. Chi era, si chiede Revelli, quel forestiero che tutte le mattine, e sempre alla stessa ora, si concedeva il lusso di una passeggiata solitaria a cavallo, quando gli ordini erano di uscire sempre in due, nelle zone più aspre degli scontri? Forse un privilegiato al quale nessuno osava impartire ordini o un ribelle insofferente a tutto e a tutti che rischiava sapendo di rischiare? E ancora: un giorno il cavallo era tornato in caserma senza di lui, i tedeschi non si erano dati grande pena nel cercarlo, il corpo non è mai stato trovato e, fatto piuttosto insolito, non c’era stata nessuna rappresaglia. Perché? Chi lo ha ucciso, i partigiani o gli sbandati? Ci fu un deliberato attentato o chi combatteva per la libertà propria e degli altri se l’è trovato di colpo davanti e la divisa che indossava ha contato più di quello che la gente diceva su di lui?

Eppure molti lo ricordano, quasi fosse ancora davanti ai loro occhi, ma nessuno riferisce con precisione. Qualche brandello di verità non ancora rilevata sembra accucciato sulla riva del torrente Gesso e nelle menti della popolazione locale che più passa il tempo più ricorda con difficoltà, aggiungendo e sottraendo elementi spesso contrastanti tra di loro. Mentre gli interrogativi si affastellano in Revelli, ricercare quell’uomo, dargli un volto e quasi un’anima, significa per lui mettere in discussione la sua idea di nemico, non quella di giusto o di ingiusto, che rimane ben salda, inscalfibile e storicamente documentata, ma di buono e di cattivo. Perché l’assillo, che rischia di minare un’intera impalcatura di convinzioni, è: ci furono nazisti buoni, dall’animo gentile e forse comprensivo? La forza di indagare quell’episodio scalpita, quasi come un dovere morale, pure con tutte le difficoltà data dall’assenza di documentazione e dal fatto che Revelli non ha vissuto in prima persona l’evento e si deve affidare agli altri. Ma, al contempo, lo scrittore mostra una malcelata ritrosia nell’individuare quella «maglia rotta nella rete», direbbe Montale, e la tentazione di abbandonare la ricerca diventa forte:

«Quando la fantasia mi prendeva la mano, mi immedesimavo pericolosamente in quel «disperso», e lo vedevo giovane, ma già segnato dalla guerra, già stanco «dentro» come un vinto. Proprio com’ero io dopo l’esperienza del fronte russo. Ma non appena la pietà sembrava prendere il sopravvento, scattava l’allarme, e interrompevo i miei sogni a occhi aperti»

Ma Revelli va avanti, aiutato sia da italiani di allora che riferiscono, ma chiedono l’anonimato, sia da tedeschi, per lo più storici, che vanno a bussare alle porte dei fornitissimi archivi in Germania che si spalancano rivelando itinerari insperati e tracce mai prese in considerazioni.

La raccolta di informazioni, indagini, ripensamenti, piste che attraversano i confini italiani materiali e morali su questo ‘nemico ritrovato’ confluiscono ne Il disperso di Marburg pubblicato nel 1994 da Einaudi. Dopo anni di ricerche, questo testo offre una cartografia illuminata e illuminante di luoghi e sentimenti all’ombra dell’occupazione italiana da parte dei nazisti. È la storia minuta di un tedesco buono, a cui i contadini cuneesi si sono a poco a poco abituati, una stoffa sgualcita da una guerra voluta da altri che si vuole stendere fino all’ultimo lembo per dimostrare che anche dietro l’uniforme sbagliata può esserci una traccia di umanità.

Il libro di Nuto Revelli appare dunque come un diario personale dove vengono vergati appunti come farebbe un archeologo in un sito di scavo da tempo desiderato: le continue scoperte esteriori si affiancano alle riflessioni interiori sempre più serrate del proprio ruolo di chi cerca e scopre anche un sé diverso, il groviglio di reperti stimolano a guardare alla guerra come un ingranaggio perverso che schiaccia gli uomini e li getta, ieri come oggi, già nella condizione di dispersi ancora prima di finire nelle liste degli scomparsi. La sua è, in fondo, una dichiarazione di guerra a tutte le guerre che sa che prima o poi faranno capolino all’ordine del giorno del mondo. E chissà quanto dovremo aspettare, come aspettava Jim Morrison, quel giorno in cui anche «la guerra s’inchinerà al suono di una chitarra»?

Forse oggi ogni soldato in ogni parte del mondo, gettato dal proprio Stato in un territorio o da difendere o da occupare, uscirà ogni mattina dalla sua posizione per guardare davanti a sé, osservare il paesaggio che cambia e si deforma per merito suo o di chi combatte contro di lui e magari proverà a fare due passi solitari senza quella paura che permette di sentirsi liberi… La stessa che probabilmente il ‘disperso di Marburg’, indipendentemente da chi fosse e dal suo ruolo sulla scacchiera della guerra, deve avere sentito viva, con un richiamo irresistibile…

Claudio Musso

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