Ma mère rit (Mercure de France) è un bel racconto di una grande regista. Un racconto che va dritto, e si infila giù come per un imbuto e poi risale come una goccia d’acqua sui gradini di una scala, e ti spiazza, ti mette sottosopra. Chantal Hanna Akerman è autrice di film unici come Jeanne Dielman. 23, quai du Commerce, 1080 Bruxelles, La captive, La folie Almayer, per citarne alcuni. Ha realizzato una serie di documentari in giro per il mondo, nell’Est d’Europa (D’Est), nel sud dell’America (Sud), e dalla finestra di un appartamento di Tel-Aviv (Là-bas), girando, come ha scritto la sua amica Claire Athertonm, l’impossibilità di scendere in strada e filmare quel documentario che non riusciva proprio a fare. È stata una regista geniale, una persona che affronta la materia di cui è fatta (e siamo fatti) in modo spregiudicato, nuovo, nella corrente indifferente del suo tempo. Nel 2015, dopo Cannes, dopo l’ultimo film, No Home movie, dopo la morte della madre, e l’ennesimo ricovero in ospedale, di ritorno nel suo appartamento parigino si è tolta la vita.

Chantal: doveva essere un nome francese. Doveva suonare il più francese possibile. Doveva nascondere l’altro nome, quello che lei avrebbe sempre cercato senza riuscire a trovarlo davvero perché la memoria non può andare oltre. Solo possiamo ricordare ciò che ricordiamo. Doveva esser l’inizio di una nuova vita. La nuova vita della madre, Nelly: la vita lontano dal campo di concentramento, lontano dalle origini, dalla Polonia, dalla famiglia perduta, annientata o dispersa. Lontano dalla paura, dal sopruso, dalla morte e da qualcosa che in fondo era come morire. Tutto sarebbe ricominciato a Bruxelles, senza poter ricominciare davvero. Per Nelly Bruxelles è la sua casa, un brutto appartamento in un brutto quartiere, prima di comprare dopo anni di sacrifici un appartameno spazioso in un quartiere perbene, la cucina lucida, il bagno che la rilassa al mattino, il lavoro nella pelletteria del marito, le cerimonie, i familiari vicini e lontani, la gente che le fa i complimenti, la gente a cui la sua famiglia deve sembrare una famiglia perbene, con due belle figlie, la sua famiglia, il frutto di tutti i suoi sforzi, della sua abnegazione quotidiana.

Di Bruxelles Chantal invece vede il grigiore del cielo che cola sugli edifici delle tante periferie della città. E col grigiore cola anche la malinconia. Città spaventosa eppure non più terribile di tante altre. Chantal vuole vedere la città che l’avvilisce. Chantal ha bisogno di sentire quei sentimenti scomodi che ti turbano quando gli occhi cadono su un angolo squallido. Quegli sguardi persi nel vuoto, l’indifferenza, e una certa gioia, sí una forma di bonheur senza brillo, senza frivolezza, una gioia che non ha ancora imparato ad esprimersi, o che sa esprimersi solo così, goffamente.

Hanna: è il nome ebreo, quello che resta lì. Il nome delle origini, dell’appartenenza, di un’appartenenza perduta per sempre. È il nome con cui Chantal si identificherà rinunciando per sempre a qualsiasi identità e appartenenza. In quel nome c’è quello della madre, della madre di sua madre, di cui resta solo un diario di ragazza ingiallito, le cui pagine si sbiadiscono, diventano illegibili e lei deve fotografarle, filmarle assolutamente, prima che non siano capaci di dirle più nulla. Quel diario è come un talismano che la madre le ha consegnato in uno di quei momenti rari in cui è capace di accettare quella figlia strana, diversa, malata. Senza cercare di corpire, di fingere. Come quelle parole che le dice a volte: tu mi fai soffrire, mi fuggi, avrei voluto darti uno schiaffo, te lo meritavi proprio. O come quella volta quando il padre era morto, e gli specchi erano ancora coperti con le lenzuala, e la casa in lutto era piena di gente venuta da lontano, ma tutti dormivano ancora e Chantal fumava e scriveva e sua madre era là sulla soglia della porta a guardarla.

Akerman: è il cognome del padre, quello che non hanno dovuto cambiare perché avrebbe potuto essere scambiato per uno fiammingo o tedesco. Il padre è una presenza assente. Lei vuole che la protagonista sia la madre. La figlia guarda il padre ora con i suoi occhi ora attraverso quelli di sua madre, attraverso lo schermo di sua madre. Assente dall’appartamento della madre oramai vedova, in cui Chantal può finalmente abbandonarsi alla madre, senza che lui la guardi. Eppure lei crede che lui in qualche modo l’abbia capita, abbia capito che quella figlia era diversa. Quella volta nel parco dell’ospedale in cui Chantal era ricoverata. E altre dopo. Eppure a un certo punto loro due si sono capiti. O forse Chantal crede di averlo capito e di averlo finalmente accettato e amato come padre. Però era già troppo tardi. La madre quel simbolo scomodo aveva occupato tutto. Per Chantal era diventata l’origine, saldata a ogni suo atto creativo, un grande paravento.

Cosa rispondeva Nelly al marito quando lo vedeva costernato per Chantal? “Non esagerare. Perché dici che è diversa? Perché non mangia? Perché è disordinata? Perché non sa stare ferma? Perché non sa mangiare senza sporcarsi la camicia? Perché non sa vestirsi? Perché non va dal parrucchiere? Perché non ha mai voluto studiare? Perché se n’è scappata a New York? Perché non si sposa? Perché non ha figli?” Sí questa era una cosa terribile per il padre. Questa era la grande colpa di Chantal agli occhi del padre. Ma questo è venuto dopo. Prima. Cos’è successo prima, prima che Chantal scegliesse testardamente la sua strada? Hanno mai parlato veramente di lei i signori Akerman? Forse Nelly non ha mai voluto parlare per davvero della figlia, per non farlo preoccupare, per proteggerlo da qualcosa che non era in fondo pericoloso, fingendosi indifferente a tutto quello che la figlia non faceva bene.

Chantal torna a Bruxelles per rendersi alla madre, anche solo per pochi giorni. La cucina. La madre si tiene dritta, è giovane e bella. Poi il tempo è passato e la madre già non si tiene dritta, è stanca, ingobbita, malata. E la figlia non la può vedere così. La bellezza non è più là. È terribile. La morte è già là. Ed è terribile. La madre cerca di tenersi dritta in cucina. Guarda arrivare la figlia, ha un moto, uno slancio, lo soffoca. Si rimette a fare quello che sta cercando di fare: la lista della spesa, pelare le patate. Poi non ce la fà a trattenersi, sfoga i suoi sentimenti. A lei piace quando la figlia viene a trovarla. A lei piace quando le sue figlie sono con lei. Ha bisogno di accarezzarle quelle figlie, di baciarle, di dirgli quanto le ami. La madre guarda la figlia ma riesce a vedere quella mite collera che le scoppia dentro? O non la vuole vedere? Chantal si nasconde. Cecra un fazzoletto di cielo alla finestra. O affonda la faccia nel divano. Più tardi si guardano ancora. Non trovano niente di cui parlare. Se Chantal non fà uno sforzo, non parlano di niente. Se non fà uno sforzo vuol dire che ora Chantal vuole solo subire quella mancanza di una vera conversazione, vuole subire la banalità di quell’amore. Vuole solo tormentarsi nella convinzione di non poter parlare davvero con sua madre, di non poterle dire quello che pensa altrimenti le provocherebbe troppo dispiacere. Vorrebbe gridare, avrebbe voluto gridare qualcosa come il grido di Ernesto della Pluie d’été di Marguerite Duras: “Le monde il est là, de tous les côtés, il ya des’ tas de choses, des événements de toutes catégories et toi t’es là à éplucher des pommes de terre du matin au soir tous les jours de l’année…!” Ma non lo fa là, davanti alla madre, non riesce a farlo.

In quei due nomi Hanna e Chantal, c’è il destino della regista. Destino di scissione, la possibilità di essere qualunque cosa avesse voluto: un enfant vieil, un adulto-bambino, una omosessuale, una nomade, una pazza, una creatrice, una cineasta originale, una scrittrice. Tutto e niente. La possibilità di essere lei e di immedesimarsi nella madre, una madre vedova, la madre della figlia di Ménilmontant e di essere così la madre di sua sorella e la moglie di suo padre (Une famille à Bruxelles). Destino di appartenenza e disappartenenza. Di conciliazione e distruzione. Chantal salta in aria nel suo primo film Saute ma ville quando è una ragazzotta di diciott’anni. Manda in frantumi l’universo materno, quella sua cucina linda raccolta nel suo tempo chiuso e ripetitivo, ma non lo fa per voltare pagina. Non raccoglie i cocci per ricostruire. Lei non sa voltare pagina, non può. Salta in aria anche lei e dopo solo può guardare quei brandelli che restano, la distruzione, la desolazione, i buchi.

I buchi, gli spazi vuoti, già scritti e ancora da scrivere la ipnotizzano. I bambini guardano in alto, le stelle, la luna, le collane di cipolle appese ai muri, tendono le braccia per afferrare, per aggrapparsi alla madre o al padre. Lei, Chantal guarda i buchi e ci precipita dentro. Il grande buco nero dell’infanzia. L’armadio nero in cui la richiudeva la ragazza di campagna a cui la madre la affidava quando andava ad aiutare il marito al negozio. Buchi di una pagina bruciacchiata. Buchi attorno a cui tutto resta intatto, com’era. Intatto eppure distrutto, alterato per sempre. Sono i buchi della memoria. Quello che Nelly è stata prima di arrivare in Belgio, la vita che non ha potuto vivere, il terrore, l’amore epistolare per un soldato israeliano. Ma di tutto questo Nelly non vuole parlare, non può parlare. O solo un poco, quanto basta per scacciare il ricordo, l’amore, la perdita, la paura. E quello che è successo prima, Nelly lo copre con i sospiri, con delle mezze frasi, con l’amore eccessivo per le sue figlie, con la forza, la vitalità, la banalità. E più Nelly lo copre, più Chantal lo cerca accanitamente. Altre volte invece Nelly si metteva a raccontare della madre che aveva talento, era moderna; del padre, un brav’uomo che lasciava che la moglie si esprimesse. E Chantal di nuovo riceveva quel racconto senza ricordarsene davero o pretendendo di non ricordarsene. Eppure lo riceveva: le parole, la storia e la voce assieme alle parole. E continuava a cercarlo accanitamente.

Deve esserci stato un momento in cui Chantal ha sentito tutto quello che la madre aveva perso, la sua pena. Forse quella pena era racchiusa nel bisogno di Nelly di nutrire quella figlia che piccina non voleva nutrirsi, che rifiutava il latte. Forse il loro rapporto si è costruito malamente attorno a questo episodio, alla paura della madre e alla pena della figlia. E questo gesto, come una prima frase, ha dato senso a tutti quelli che sono seguiti. Il senso di tutti i gesti che sono seguiti è dipeso da quello che Chantal ha dato inconsciamente a quella prima parola. Perché quella storia, la sua storia in fondo era tutta una sua invenzione.

Per qualche ragione tutto si è stagnato attorno a quel caos represso, fino a che entrambe, la madre e la figlia, hanno preferito la speranza, torturarsi nella speranza più o meno taciuta che Chantal cambiasse, crescesse finalmente, imparasse a non sporcarsi i vestiti, a stare a tavola, a fare una vita regolata. E la speranza più o meno taciuta di Chantal che la madre sarebbe stata un giorno capace di sostituire a quell’amore una frase sincera di disapprovazzione. Sí che le gridasse una volta per tutte la sua disapprovazione: tu non mi piaci. Chantal ha bisogno che la madre veda la sua disperazione, la sua tristezza, quel vuoto, quel silenzio. Ma Nelly non può, non vuole. Nelly è forte, non piange, non se ne frega che la figlia sia così, trattiene, trattiene. “Ma mère rit”, scrive Chantal. E invece forse avrebbe voluto dirle: “Mamma pìangi!” E poi: “ Mamma non piangere, non piangere per me”. Ma non sono riuscite a farlo. Con gli anni, quando i genitori sono invecchiati, si sono ammalati, e sono morti, tutto si è addolcito e Chantal si è seduta sulle ginocchia del padre ed è accorsa dalla madre, l’ha filmata. Ma non è riuscita a dirle tutto.

Ci deve essere stato un momento in cui Chantal ha cominciato ad amarla troppo, a compatirla per quello che aveva sofferto. E quell’amore eccessivo e la compassione le pesavano, la soffocavano. Allora lei è scappata. A New York, a Parigi, a Gerusalemme. Altrove. Con i suoi brothers e sisters come li avrebbe chiamati Duras. Lontano per dimenticare la sofferenza, per far soffrire la madre, per dimostrarle che non era vero niente che lei non se ne fregava che la figlia fosse così, e per far soffrire e sentire la sofferenza del padre al vedere quella figlia sbandata, senza marito e senza figli, e soffrire di quella sofferenza. Lontano riusciva a vivere, a vivere disordinatamente, a creare, a lavorare. Ha cominciato a vivere scappando e tornando fino a che non c’è stato più nessuno da cui tornare e tutto non ha più avuto senso. La sua vita non era lì a Bruxelles ma nemmeno altrove. Solo in questo andare e tornare. In questo bisogno viscerale di fuggire, come avevano fatto i genitori. Anche Chantal ha bisogno di una lingua straniera (l’ebreo, il russo, il polacco…) che esca dal suo corpo senza che lei se ne renda davvero conto. Posseduta dallo spirito di una lingua perduta. Chantal ha bisogno di un luogo da cui essere fuggita prima di essere arrivata là. Là non l’aspettano i suoi figli, perché lei non ne ha. Là l’aspetta ancora la madre. Noi, spettatori, siamo i figli che ascoltano da dove viene la madre, il misterioso e banale passato della madre.

I buchi sono un altro modo di parlare della memoria. Chantal vuole riempire quei buchi con la sua verità, o restare lí a contemplarli con la cinepresa fino a che succeda qualcosa. Nell’insonnia, nelle esplosioni della personalità e della creatività, nella reclusione di una clinica, in quel letto sfatto in cui si rifugia. Il luogo della memoria è spesso il suo corpo, di Chantal, di Hanna e dei suoi doppi, Sylvie, Aurore, Delphine Sering. Corpo che si espone narcisita e indifferente. Corpo simile e dissimile da quello della madre. Corpo ripreso frontalmente senza pudore, senza artifizi. E il corpo si allarga e si fa spazio. Uno spazio come un altro in cui sembra che non ci sia niente di diverso. Eppure quello spazio è diverso. Ora perché c’è un albero e quell’albero è lì solo. E quello spazio è quest’albero. Quest’albero nella sua solitudine disperata. E questa cosa, l’albero o una fila di figure che aspetta si conficca nell’anima. E Chantal è di nuovo come Ernesto della Pluie d’été: “frappé par la solitude de l’arbre”.

In questo spazio il tempo deve poter scorrere perché in quel tempo che corre lentamente c`è lo sforzo di Chantal di pulire quello spazio, di svestirlo, di sporcarlo per vederci meglio. Il tempo deve poter scorrere per permettere allo spazio e ai corpi di farsi memoria di qualcosa che c’èra e non c’era, dentro di lei o dentro di noi. Chantal forza con la cinepresa a volte attenta, altre più svogliata, quello spazio, quell’oggetto che continua ad essere là depositato o dimenticato, quella figura che continua a stare là, quegli occhi che continuano a fissarti, reali fino all’irealtà. Lei aspetta frenetica e inerme l’avvicinarsi della sua “ombra interna”.

Silvia Acierno

 

“Comment t’aurais pu lire ce livre, espèce de crétin, puisque ‘ tu sais pas?”

Marguerite Duras