Chris Offutt somiglia a mio padre: cercate in rete una sua fotografia, una di quelle più recenti, e avrete un’idea, anche se sommaria, di com’era mio padre intorno ai sessant’anni – ventre sporgente, capelli e barba brizzolati e profondissimi occhi azzurri.

So che potrà sembrarvi strano che io cominci così questa seconda tappa del nostro viaggio nella letteratura americana, dopo la prima a Starkfield, villaggio immaginario scolpito nel ghiaccio da Edith Wharton agli inizi del secolo scorso. Avreste ragione, nel caso lo pensaste, perché in effetti dovrei scrivere di Offutt, del suo romanzo Country Dark, dovrei raccontarvi del Kentucky. Lo farò, ovviamente. Ma questo è un viaggio – ricordate? – anche in un certo modo di intendere la letteratura e quindi di parlarne, e ciò che non si dice mai abbastanza, ciò di cui secondo me non si parla abbastanza, è il fatto che la letteratura arrivi a ciascuno di noi per strade imponderabili, il fatto che si mescoli con la nostra vita molto più profondamente di quanto immaginiamo, che arrivi a farne parte così come un ricordo, qualcuno che amiamo o un’esperienza personale. Il fatto, insomma, che la letteratura sia anche una questione sentimentale, che sia una cosa viva.

Le strade che ci portano ad amare un autore piuttosto che un altro, un libro piuttosto che un altro (oltre le recensioni, che certamente contano, i premi letterari, che certamente invogliano, e i consigli di lettura), be’, quelle strade sono lastricate di moltissime cose di cui a volte neppure ci accorgiamo: correnti sommerse, moti dell’anima, echi e rimandi.

Potremmo sostenere, come sostiene Elizabeth Strout, che, al di là di tutto, i libri giusti (per noi) abbiano il potere misterioso di trovarci.

Così, mentre scrivo queste righe, il viso di mio padre si mescola di nuovo al viso di Chris Offutt, quest’uomo del Kentucky – capelli e barba brizzolati, profondissimi occhi azzurri – un autore che amo, e questo mi commuove. Ma non è soltanto il viso, no (sono sentimentale, è vero, ma non così tanto da perdere il controllo: non potrei scrivere, altrimenti). È che il viso di Offutt, confuso con quello di mio padre, mi porta indietro nel tempo, fino a un momento di più di dieci anni fa. È quel momento il punto da cui vorrei partire. Provo a ricostruirlo qui, sperando di fare chiarezza riguardo al mio strano percorso.

Perciò, immaginate una camera da letto immersa nella penombra. Immaginate un uomo seduto sul bordo del letto nel suo pigiama stazzonato, la sigaretta che pende tra le labbra. È un uomo sofferente, che alterna da anni depressione ed euforia. In quell’istante è molto depresso, non riesce a fumare, non riesce ad alzarsi.

“Lo sai qual è la cosa che mi rattrista di più?”, chiede alla figlia, appena entrata nella stanza per portargli qualcosa, forse una tazza di caffè.

La figlia dice: “No”.

“La cosa che mi rattrista di più”, prosegue lui, “è che nessuno racconterà mai la mia storia”.

La figlia se ne va, non ha capito bene o forse non le importa. Ripenserà più tardi a quella frase, e poi continuerà a pensarci negli anni a venire.

La figlia di quell’uomo sono io. E penso ancora adesso a quella frase.

Mio padre, come Offutt, veniva da un posto di collina. Non c’era niente di notevole, in quel posto (sgombrate la mente da immagini a tinte pastello, pittoresche), nessuna prospettiva, almeno dal suo punto di vista, così se n’era andato appena possibile. Aveva costruito altrove una famiglia, aveva il suo lavoro. Ma in fondo le colline dell’infanzia l’avevano seguito, anzi l’avevano braccato, dandogli la certezza che non sarebbe mai riuscito a liberarsene, che fosse nato nel posto sbagliato e che per questa ragione non fosse destinato a qualcosa di grande. Alla mia morte, pensava, verrò dimenticato: chi mai vorrebbe ricordare la mia storia? Chi mai vorrebbe raccontarla? Che c’è da raccontare? Niente.

Quelle colline erano ai suoi occhi – potremmo chiamarle così, usando il titolo della prima raccolta di racconti di Chris Offutt – le terre di nessuno. Le terre di nessuno, sì. Eppure erano piene di gente come lui, gente che non sarebbe stata ricordata, persone che sarebbero svanite. Gente che non faceva la Storia. Uomini e donne da dimenticare.

La geografia è destino, ricorda un vecchio detto: sono sicura che mio padre avrebbe concordato. Quello che in quel momento non sapeva è che mi stava offrendo un senso più preciso, più pieno della letteratura (del mio mestiere, insomma). Quello che non sapeva – lui non leggeva narrativa, soltanto i quotidiani, a volte qualche saggio – è che le terre di nessuno avevano eccome dei cantori, che c’era uno scrittore, per esempio, nato nel 1958 a Lexington, tra le colline boscose del Kentucky, a ridosso dei monti Appalachi, che stava raccontando quella gente e non avrebbe fatto altro.

Mio padre non conosceva Ethan Frome, di cui vi ho parlato la settimana scorsa, non ne sapeva nulla. Non conosceva Stoner, di cui vi parlerò, nato nella campagna remota del Missouri. Non conosceva Carver. E non poteva sapere che Chris Offutt, che gli assomigliava, avrebbe un giorno raccontato la storia di un uomo che si chiama Tucker, un giovane uomo delle terre di nessuno e della gente di nessuno, in un romanzo intitolato Country Dark.

L’aria della notte si raffreddò rapidamente. Spense il fuoco con un po’ di terra, si accese una Lucky e si appoggiò all’indietro. Forse sarebbe rimasto lì un paio di giorni. Casa sua non andava da nessuna parte, e non era comunque questo granché: duecento persone in mezzo ai boschi, le case collegate da sentieri sterrati, con le scorciatoie lungo i crinali. Conosceva tutti quelli che ci abitavano. Sentì il richiamo di un gufo barrato e aspettò la risposta della femmina, più acuta, che però non arrivò. Il gufo era solo, proprio come lui. Fumò la sigaretta fino al mozzicone, che mise da parte per dopo. Poi chiuse gli occhi e si addormentò.

La casa di Tucker, il suo paese, non è questo granché. Duecento persone appena, e sentieri sterrati. Eppure Tucker (è questa l’apertura del romanzo) sta ritornando lì, su mezzi di fortuna ma soprattutto a piedi. Ha appena attraversato il confine con l’Ohio. È il 1954. Torna da un posto lontanissimo che si chiama Corea. È un uomo delle terre di nessuno che ha combattuto, volontario, in una guerra che verrà dimenticata, schiacciata dal peso di quel gioco al massacro dal nome purtroppo indimenticabile di Vietnam, decine di volte raccontato al cinema, nei libri, decine di volte rievocato. È un giovane Ulisse che torna alla sua Itaca qualunque, attratto come un pezzo di ferro dalle colline calamita del Kentucky, dove combatterà la più importante tra tutte le battaglie (il cuore del romanzo). Perché la vita è questo, mi pare dica Offutt: una lunghissima battaglia, una questione di scelte e di appartenenze (da che parte starai?), e nelle terre di nessuno, in quella zona oscura del Paese, nei posti dimenticati da Dio di cui gli Stati Uniti sono pieni (di cui è pieno il mondo) si combatte come altrove per quello in cui si crede, per le proprie scelte, per le persone amate, o forse si combatte anche di più. In quel paese oscuro, la vita di un uomo o di una donna può essere il riassunto, il distillato, del senso della vita di ciascuno di noi, ovunque ci troviamo.

È la visione di Offutt, ed è la visione di tutti quei cantori dei confini, dei bordi sfilacciati, dei luoghi marginali o più nascosti, delle periferie: il centro può essere dovunque dentro la luce nitida della letteratura. Il centro è dove meno te lo aspetti. Il centro è dove tu posi lo sguardo. Il centro, qui, è la vita di Tucker, giovane Ulisse della metà degli anni ’50, di ritorno alle colline povere e boscose del Kentucky.

Nella bellissima biografia paterna (in parte autobiografia) che pubblicò nel 2016 e che si intitola Mio padre, il pornografo, Offutt scrisse di aver capito, dopo la morte del padre:

che quel paesaggio mi avrebbe sempre tenuto stretto, che non sarei potuto scappare mai, che in realtà ciò che amavo e a cui mi sentivo più fedele erano proprio quelle colline con i loro boschi, e non mio padre.

È questa fedeltà il segno della poetica di Offutt. È il desiderio di dare a quel posto del mondo, sui monti Appalachi, la sua letteratura, di restituire a tutta quella gente, a quell’umanità altrimenti destinata all’oblio, il proprio patrimonio narrativo.

Come mio padre, Offutt se n’è andato presto dal piccolo paese in cui viveva. Aveva diciott’anni. Ma le colline non l’hanno mai lasciato andare per davvero, e lui ha trasformato quel legame (lo stesso che per mio padre rappresentava un limite) in romanzi e racconti. L’origine per Offutt si è fatta fedeltà, la fedeltà letteratura, e la letteratura il canto dei dimenticati e delle loro battaglie, di tutte quelle vite intrise di amore e tenerezza (l’amore di Tucker per la moglie, Rhonda, conosciuta durante il viaggio di ritorno in Kentucky, e per i propri figli che qualcuno – lo Stato – vorrebbe strappargli, l’amore per la propria terra) e insieme di povertà, di isolamento e di ferocia, persino di violenza, quando quello che amano è in pericolo.

Tesoro”, le disse. “Presto la mamma avrà un altro bambino. E io dovrò stare lontano per un po’. Avrà più che mai bisogno di te.”
Dove vai? Posso venire anch’io?”
No, non puoi. Non è un posto per bambini.”
Non voglio che te ne vai, papà.”
Nemmeno io. E nemmeno la mamma. Ma succede.”
Perché?”
Arriva un momento…”, disse, poi si fermò. “Un uomo…”
Smise di parlar, e senza pensarci troppo allungò una mano per accendersi una Lucky, poi decise che era meglio di no, perché il volto di lei era troppo vicino al suo.
Jo. Devo andare e basta. È una specie di lavoro. Solo che è più lungo. Non c’è molto altro da dire. Ma tornerò.”

Country Dark è un canto della vita nelle sue linee più essenziali, dolcissime, durissime.

Qualcuno racconta certe storie, sussurro adesso a mio padre, come potessi tornare in quella stanza e rivederlo seduto sul suo letto. In fondo le racconto anch’io. Ti ringrazio per avermelo detto. E, credimi, non c’è motivo di essere tristi.

Anche questa volta permettetemi una nota a margine.

Offutt è un lettore appassionato di Kent Haruf, e non me ne stupisco. Dalle terre di nessuno nel Kentucky a quelle di nessuno in Colorado il passo è molto breve. Un giorno, così racconta, ha avuto la fortuna di incontrarlo. Pare che Kent Haruf l’abbia abbracciato forte e poi gli abbia detto: “Tu sei di famiglia”.

Elena Varvello