Viola Di Grado, apparsa giovanissima con un primo romanzo Settanta acrilico trenta lana (edizioni e/o, 2012), risultato vincitore – tra gli altri – del Premio Campiello Opera Prima, ritorna nel 2014 con Cuore cavo (edizioni e/o), un libro che ha nuovamente sorpreso, per il coraggio, i toni duri, le aperture liriche con cui tratta un tema sconcertante.

Nel 2011 è finito il mondo: mi sono uccisa.

Esordisce così, Dorotea Giglio, la narratrice di Cuore cavo, annunciando il suo suicidio in tono neutro, tecnico; lo rende noto come fosse un crollo, un’alluvione, un sovvertimento geologico; ma il cataclisma – sarà subito chiaro – non ha natura puntiforme; è un’onda, diffonde a gradiente, si espande; come il riverbero di un sisma, lo sversare nel terreno di una sostanza tossica.

Il 23 luglio, alle 15,29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo secco disteso, i miei trecento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi gonfi, l’encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l’altro immerso in un triste mojito di bagnoschiuma alla menta e sangue.

Il corpo di Dorotea si raffredda nella vasca da bagno, con le vene dei polsi recise, e da quel nucleo di rovina, di cessazione, qualcosa si propaga nel territorio circostante:

[…] giù per le scale polverose del mio palazzo, giù come vene dell’asfalto unto e bollente, insidiosa, la mia morte si è propagata da via Crispi 21 alle strade circostanti, al Duomo con i suoi piccioni e i suoi turisti in shorts, al fiume Amenano che odora di carogna e scompare sottoterra. Dal mio sistema nervoso centrale alle strade centrali, da freddo a caldo, un guasto perfetto senza ritorno […] ha contagiato il resto del pianeta, lenta come lo smog, solenne come un vuoto, privata come una preghiera, diventando presto uno dei fenomeni ambientali più urgenti e più invisibili.

La fusione, assimilazione del corpo umano con la natura procede nel verso opposto a quello cui la letteratura classica ci ha abituati. Non è Proteo che diviene acqua o albero, né Ampelo che rinasce in un tralcio di vite, né Teti, ninfa del mare, che muta in onda. In Cuore cavo accade il contrario, è l’universo intero a trasformarsi nel corpo di Dorotea, ad assorbirne la disfatta.

La voce narrante traccia una geometria precisa della morte, dove il corpo è un diagramma di studio, un canovaccio su cui la corruzione mappa in modo quotidiano il proprio lavorare: il rigor mortis, le ipostasi, il gonfiore livido; la pelle come uno straccio rotto, i vermi negli occhi; i tendini sfibrati, le ossa in polvere; ogni evoluzione viene rilevata, datata, contrassegnandone persino i parassiti, i ceppi batterici responsabili, con precisa denominazione medico-scientifica.  

Adesso, nel castello di carne in rovina che un tempo chiamavo “io”, sono una completa straniera.

La decadenza del corpo è alternata a una esegesi del dolore a ritroso, mediante il riverbero dei ricordi e le incursioni nel mondo dei vivi; è qui che la possibilità ormai perduta di toccare, di comunicare diviene il vero ingrediente doloroso della morte.

La famiglia di origine – anomala, afflitta – è ricordata nei flashback dell’infanzia, e svela lentamente le sue atmosfere crepuscolari, le sue vocazioni luttuose di lunga data.

Una triade femminile – fin da bambina – la precede e la sovrasta, condizionandola: la zia-ragazza annegata nel fiume con le tasche piene di sassi (come non pensare a Virginia Woolf), la zia luminosa che cucina e pulisce, la madre alienata e abulica, persa nella sua incavata fissità. Di queste, la prima pare non essere mai andata via dalle altre due, respirare loro all’orecchio, allungarne l’ombra.

Dunque la famiglia che tanta parte ha avuto nello scivolare di Dorotea verso la sua indole e la sua decisione, è ora visitata in spirito, scandagliata nelle sue disfunzioni multiple, come fosse ancora un rebus irrisolto in cui le immagini non hanno generato le giuste parole.

La madre di Dorotea in questo senso può essere pensata come il vero personaggio-chiave del suo male di vivere, benché l’autrice sorvoli su ogni illazione o giudizio. È una figura costruita per sottrazione, governata dalla mancanza, dal silenzio; traccia il suo dolore in modo taciturno, ectopico; fa fotografie di moda per bambini con ambientazioni incomprensibili, cupe, che vengono costantemente rifiutate dalle riviste.

Nel romanzo l’atmosfera è svagata, opaca; Dorotea registra la sua disfatta fisica con la precisione dell’entomologo, e vive un’inattesa comunanza, in una sorta di torpore sbigottito, con altre anime morte, mentre aleggiano in spirito come numi tutelari, altre sacerdotesse di pena (Sinéad O’Connor, Frida Kahlo, Amy Winehouse, Whitney Houston) nel cui perimetro si delinea un giardino ritirato, claustrale di vestali suicide.

Al di là del linguaggio a volte immaturo, che eccede o sbanda, e delle incongruenze tra corporeità e incorporeità che forse avrebbero richiesto qualche malizia narrativa in più per divenire meno percepibili, o più credibili (la protagonista è puro spirito ma sposta le cose, si alimenta, è vista da alcuni e invisibile ad altri), Cuore cavo rimane un testo interessante: nella dialettica Calviniana tra fiamma e cristallo, esso ribolle certamente del fuoco, pur non determinandosi ancora con perfezione geometrica e solitaria. Cuore cavo è un romanzo sulla morte, e in questo è preciso e feroce come deve, ma il suo vero tema è agli antipodi. La pietà per sé stessi come essere umano – la corporea caducità, l’inventario del dolore – traspare calda e delicata come una carezza, e finisce per abbracciare, in modo scontroso, quasi selvatico, ogni altra creatura.

Quello che lascia pensosi, malinconici, è che il suicidio – qui come in altri contesti letterari – non ha motivo esplicito, che sia diretto e concreto: pare una scelta dovuta, congenita, un lieve scivolare verso la propria verità.

Così Sylvia Plath:

Io sono verticale
ma preferirei essere orizzontale […]
finalmente gli alberi mi toccheranno,
i fiori avranno tempo per me.

Dunque andarsene, lasciarsi tutto alle spalle. Ma in Cuore cavo c’è lo strisciare bollente, se pur mai nominato, del rimpianto. Prende forma per contrasto, con il susseguirsi di immagini e parole taglienti; constatazioni, ricordi, esplorazioni nella vita di chi resta, dove la fermezza vacilla e la pulsione di annullamento finisce per stentare. Il non essere più diviene una persistenza vigile e dolorosa, un ascoltare, uno spiare; un seguire e osservare, allungando una mano assente, fatta di vuoto. La brama di contatto – sembra volerci dire l’autrice – non si risolve con la morte, ma anzi perdura e strazia, forse ancor di più, in assenza del corpo.

Isabella Bignozzi

Qui il sito ufficiale di Viola Di Grado