Immaginate una spiaggia sabbiosa, lunga e profonda, e la vastità dell’Oceano Atlantico. È una giornata di luglio del 1946, un dopopranzo. La spiaggia è quasi deserta.

Un grande albergo sta sul confine tra sabbia e cemento: un edificio imponente, molto elegante, in qualche modo severo. Lo sventolio di bandiere sul tetto, un lungo corpo centrale, due ali ai lati, più alte – raggiungono i sette piani.

Siamo al 600 di North Atlantic Avenue, Daytona Beach, nella contea di Volusia, su quella lingua di terra, quel grosso dito puntato nel mare, che si chiama Florida.

L’albergo è il Sheraton Plaza.

Era in origine un cottage, di proprietà di Charles Ballough, un ricco imprenditore, che a fine ‘800 l’aveva ampliato, chiamandolo Claredon, e poi ancora ampliato per riconvertirlo in hotel, il Daytona Beach’s Grand Resort, chiuso ai clienti durante la guerra – utilizzato come acquartieramento di truppe – riaperto infine nel ’44 col nuovo nome di Sheraton Plaza.

L’ingresso, ampio, sontuoso, rivolto alla strada, è punteggiato di palme, con un viale d’accesso a doppia corsia percorso dalle automobili e due vialetti ricurvi.

Alti soffitti all’interno, palmizi in vaso, tendaggi. Un pianoforte a disposizione di chi lo voglia suonare. E gli ascensori, su cui ragazze e ragazzi in divisa sorridono ai villeggianti, accompagnandoli ai piani.

C’è una bellissima sala da pranzo – guarda com’è luminosa – le cui finestre danno su un portico, su quella spiaggia di sabbia e sul mare. Ora è deserta, solo il rumore di piatti, bicchieri e posate portati via sui carrelli, i passi stanchi delle cameriere, i lavapiatti in cucina, le pile delle stoviglie da tirare a lucido.

Là, sotto il portico, sono piazzate delle sedie a dondolo: c’è chi sorseggia un Martini, c’è chi mordicchia l’oliva. Qualcuno chiacchiera, appesantito dal caldo, fumando un sigaro, una sigaretta, la pipa. L’aria rovente stordisce.

Là sotto il portico, nel dopopranzo, giunge una musica, una canzone, The Gipsy, al primo posto in classifica – è di un gruppo jazz, The Ink Spots: voci maschili, suadenti, con sottofondo di piano e chitarra, un passo lento, nostalgico, quasi sognante.

In a quaint caravan
There’s a lady they call the Gipsy
She can look in the future
And drive away all your fears
Everything will come right
If you only believe the Gipsy

Chi sorseggiava il Martini all’improvviso si blocca con il bicchiere a mezz’aria; chi mordicchiava l’oliva la ferma contro una guancia un istante. Il chiacchiericcio si quieta: prima un sussurro poi niente.

Restano tutti in ascolto.

Alla parola futuro qualcuno guarda lontano, all’orizzonte indistinto nell’aria lattiginosa: guarda lontano – lo scintillio di una vela – e insieme indietro nel tempo, a quel che è successo, la guerra – tutti quei morti, mio Dio, tutti quei nostri ragazzi, tutti i ragazzi rimasti laggiù, in Normandia, nelle Ardenne, a Okinawa o sulla brulla Jwo Jima, su un altro Oceano. Viene da piangere.

Tocca scacciare il pensiero, tocca portare il bicchiere alle labbra, ricominciare a mordicchiare l’oliva, tirare un’altra, profonda boccata di fumo, driving away all your fears.

E poi, comunque, la guerra è finita.

È una giornata d’estate del ’46 e loro sono in vacanza: meglio pensare al futuro, solo al futuro, a quella vela che naviga sull’orizzonte indistinto. Il sole splende. Sono allo Sheraton Plaza di Daytona Beach, sopra quel dito di terra che si chiama Florida.

Poi, dalla spiaggia, dal punto in cui la sabbia è più fine, spunta qualcuno. Sono due donne, stanno parlando fra loro. Portano occhiali da sole, sandali e copricostumi. La pelle è unta, abbronzata.

“Ecco la signora Carter”, dice una voce nell’ombra, sul portico.
“L’altra è la signora Hubbelsmith, vero?”, dice una seconda voce. “È lei?”
“Sì, sono loro.”
“E la bambina? La piccola Carter?”
“No, non la vedo.”
“La lascia sempre da sola.”
“Proprio così.”
“È troppo piccola.”
“Già.”
“Fa troppo caldo, per stare in spiaggia a quest’ora.”

Le due signore, ora vicine, salutano quelli seduti sulle sedie a dondolo: tutto un frullare di mani, di frasi di circostanza e sorrisi. Meglio parlare del tempo, dell’aria rovente, di quel che faranno più tardi, in serata.

“Avete qualche programma?”
“E voi?”
“Vedremo.”
“Be’, allora a più tardi.”

Sono in vacanza, accidenti. Cos’altro dovrebbero fare?

La maggior parte degli ospiti, che ha già pranzato, adesso sta riposando: dorme o sonnecchia appena sulle lenzuola, dentro le stanze in penombra. I ventilatori ronzano. Qualcuno russa o borbotta nel sonno.

Squilla un telefono, ma dura poco.

Una donna sta salendo al suo piano, in ascensore: ogni giorno ritorna in camera proprio a quell’ora, dopo un buon bagno, il naso imbiancato di pomata allo zinco per le scottature. Quando le porte dell’ascensore si aprono, la donna percorre il corridoio, passetti veloci, la chiave già stretta in una mano, e poi scompare alla vista.

In quelle stanze – decine e decine – chiuse per tenere fuori il gran caldo, non è arrivata la voce nostalgica del cantante di The Ink Spots, né la cadenza struggente di piano e chitarra né la parola futuro.

Tutto è tranquillo, o così sembra.

Il sole picchia sopra le imposte socchiuse, disegna sui pavimenti strisce sottili di luce, luce di Florida, luce d’estate, che lentamente si muovono e non disturbano il sonno. Ma c’è una stanza in cui non c’è pace, non c’è riposo: la finestra è aperta, e sono aperte le imposte.

Un giovane uomo, neppure trent’anni, guarda la spiaggia.

È nato nel ‘19, a New York. Gli amici lo chiamano Jerry. Ha un matrimonio fallito alle spalle, brevissimo. Scrivere è ciò che vuol fare – ha pubblicato già alcuni racconti. Pallido, allampanato e nervoso, completamente vestito nel pomeriggio rovente, fuma le sue sigarette.

Ha combattuto in Europa, nel 12° reggimento di fanteria: lo sbarco a Utah Beach e poi le Ardenne, una battaglia tremenda, furiosa. Infine, forse la cosa più dura – aprile del ’45 – è entrato coi suoi compagni nel campo di Kaufering, uno dei tanti satelliti, orribili, spuntati intorno a Dachau, pieno di uomini schiavi in condizioni pietose. Pieno di morte, pieno di vita che pare già morte.

You never really get the smell of burning flesh out of your nose entirely, no matter how long you live.

E così lui è crollato, è andato in pezzi – stress post-traumatico e disperazione. Ha chiesto e ottenuto il ricovero nel policlinico di Norimberga. Si è rimesso in piedi, più o meno, poi è tornato negli Stati Uniti. Adesso è in Florida, a Daytona Beach, in quella stanza inondata di luce del Sheraton Plaza, completamente vestito, da solo, davanti alla finestra aperta.

Guarda la spiaggia. Guarda due donne – sandali e copricostume, occhiali scuri – mentre camminano verso l’albergo. C’è una bambina, poco più in là: sta costruendo un castello di sabbia.

Jerry si sporge per guardarla meglio.

Nella sua mente scoppiano a tratti – non hanno mai smesso – rumori infernali, lampi di mitragliatrici, l’eco di grida di aiuto. I prigionieri del campo, scheletrici. I suoi compagni feriti, straziati. È il suo tormento.

Tutto si mescola a quel castello di sabbia, alla bambina che riempie d’acqua il secchiello, poi torna accanto alla sdraio per continuare il lavoro, alle due donne abbronzate che parlano e ridono. Tutto: la vita, la morte.

Jerry respira. Respira ancora.

Spegne la sua sigaretta nel posacenere colmo, ne accende subito un’altra.

E poi, di colpo, gli pare di scorgere un giovanotto in accappatoio, steso sul dorso, un asciugamano sugli occhi. Alto e sottile, i capelli radi, abbandonato nel sole.

Jerry trattiene il respiro.

Jerry distoglie lo sguardo.

Ha l’impressione che quel giovanotto sia simile a lui, che gli somigli moltissimo. Troppo, perfino. Un’impressione di intimità, in ogni caso. Un déjà-vu. L’ha già incontrato, lì nell’albergo, in sala da pranzo o in ascensore, sul portico?

L’ha visto suonare il piano, una sera?

Quando ritorna a guardare quel punto, del giovanotto non c’è più traccia. Non c’è nessuno, laggiù, soltanto quella bambina. Solo la spiaggia e la vastità dell’Oceano.

Il fumo di sigaretta sale nell’aria, uscendo dalla sua stanza.

In quel momento – già, proprio allora – arriva a Jerry una musica, una canzone lontana, lenta e sognante, nostalgica. C’è la parola futuro, tra i versi della canzone.

Aspetta un attimo, pensa: è The Gipsy.

E poi gli viene da piangere.

L’aria rovente porta lassù la canzone, fino alla stanza inondata di luce al quinto piano del Sheraton Plaza, dove lui, Jerome David Salinger, giovane uomo di ventisette anni, gli occhi arrossati, sopravvissuto alla guerra, all’orrore, perseguitato da lampi e da grida, con un taccuino e una penna sul letto per scrivere nuovi racconti, forse un romanzo, completamente vestito, solo e nervoso, ha appena visto qualcuno – sé stesso? – steso sul dorso, sopra la sabbia di Daytona Beach, a una manciata di metri da una bambina, dalla vastità dell’Oceano, dalle sue profondità – era un abbaglio, comunque.

Era soltanto un abbaglio, Jerry, tranquillo.

Ma forse no.

Elena Varvello

PS:

Il racconto Un giorno ideale per i pescibanana venne pubblicato sul New Yorker il 3 gennaio del 1948. Nel 1953 uscì nuovamente, come racconto d’apertura della raccolta Nove racconti. Da molti è considerato il racconto più bello che Salinger abbia mai scritto. E tra quei molti ci sono anch’io.