La vicenda letteraria di Alda Merini si lega inestricabilmente (e in maniera analoga a quanto abbiamo osservato in tempi recenti con la poetessa Amelia Rosselli, sempre all’interno di questa rubrica) con la sua storia privata e, in particolare, con le turbolente avventure della sua psiche.

Merini nasce a Milano, nel marzo del 1931, da un padre di nobili origini e da una madre contadina, che la educa severamente e con distacco, cercando di proibirle gli studi e la lettura, e instradandola a un futuro esclusivo di moglie e madre di famiglia. Fin da bambina comincia a manifestare i primi segnali di un carattere mentalmente instabile. Durante gli studi elementari, infatti, va incontro a quella che definirà successivamente una sorta di “crisi mistica”, per cui comincia a portare il cilicio, a mendicare per strada e ad avanzare il desiderio di farsi monaca. La risposta materna alla stravaganza della figlia è dura e immediata: il misticismo della giovane Merini viene soffocato con botte e rigide punizioni.

Gli anni austeri della sua infanzia, insieme alla coscienza di un destino eccentrico, già segnato fin dai primi anni dal solco del sommerso stato di follia, sono evocati in una poesia più tarda, raccolta in Vuoto d’amore, del 1991: «Sono nata il ventuno a primavera / ma non sapevo che nascere folle, / aprire le zolle / potesse scatenar tempesta. / Così Proserpina lieve / vede piovere sulle erbe, / sui grossi frumenti gentili / e piange sempre la sera. / Forse è la sua preghiera» (Sono nata il ventuno a primavera). In questi versi la poetessa rispecchia in un certo senso la sua condizione anomale al mito classico di Proserpina, la dea figlia di Cerere, che era stata rapita da Plutone (l’episodio è noto come Il ratto di Proserpina), che se ne era invaghito. Per intervento di Giove, a Proserpina era stato concesso di trascorrere metà dell’anno nel regno dei morti con il marito (autunno e inverno) e metà dell’anno sulla terra con la madre (primavera ed estate). In maniera analoga, Merini si riconosce nel suo destino di poetessa melanconica ed esule nella propria terra, e nell’ambivalenza della sua personalità scissa e bipolare.

Finita la guerra e ritornata a Milano, dopo un periodo trascorso con la madre a Vercelli, dove si erano rifugiate a casa di una zia, Merini esordisce a quindici anni come poetessa, grazie soprattutto all’incontro decisivo con il critico e scrittore Giacinto Spagnoletti, che ne riconosce il precoce talento letterario. Ma gli eventi non sembrano prendere una piega favorevole per l’autrice, il cui esercizio letterario viene fortemente osteggiato dai genitori. Allo stesso tempo, tornano a manifestarsi con maggior forza le “ombre della sua mente”, che finiscono per costringerla all’internamento in manicomio, nel 1947, dove ha una prima diagnosi di disturbo bipolare.

Una volta dimessa dal manicomio, la situazione sembra migliorare. La vocazione letteraria, vinte le resistenze dei genitori, viene riconosciuta da molti importanti esponenti del panorama culturale dell’epoca (tra gli altri, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo e Giorgio Manganelli), e molte sue poesie escono su riviste letterarie e in antologie dedicate alla poesia contemporanea. Nel 1953 si sposa e nello stesso anno viene pubblicata la sua prima raccolta poetica: La presenza di Orfeo, che si riallaccia esplicitamente al mito orfico (il poeta capace di rendere mansuete le belve con la melodia del suo canto) e che quasi sembra riecheggiare un volume di un altro poeta novecentesco, anch’egli a sua volta annebbiato dalle ombre di una mente instabile, I canti orfici di Dino Campana. Linee che corrono lungo le trame letterarie a creare legami, tracce, distorsioni, o semplici abbagli.

Nel 1964, tuttavia, la poetessa ricade nella psicosi, e viene nuovamente internata in manicomio, dove vi rimarrà (benché con sporadici ritorni in famiglia) fino al 1972. Otto anni alle soglie della vita, un’esperienza liminale e radicale, che confluirà in forma di poesia in testi abissali e straordinari, riuniti nella sua raccolta più importante: La Terra Santa, del 1984. In questa raccolta, il ricordo di quegli anni viene rievocato attraverso il racconto biblico, come possiamo osservare nella poesia omonima: «Ho conosciuto Gerico, / ho avuto anch’io la mia Palestina, / le mura del manicomio / erano le mura di Gerico / e una pozza di acqua infettata / ci ha battezzati tutti. / Lì dentro eravamo ebrei / e i Farisei erano in alto / e c’era anche il Messia / confuso tra la folla: / un pazzo che urlava al Cielo / tutto il suo amore in Dio» (La Terra Santa).

Nei decenni successivi la già corposa produzione letteraria dell’autrice si infittisce, dando vita a un corpus poetico di grande respiro. La scrittura di Merini prosegue il tracciato segnato fin dai primi componimenti, attraverso un verso immaginifico e musicale, che ripercorre – per usare un’espressione tratta da una raccolta dell’autrice – il diario di una diversa, il percorso esistenziale di una figura spostata dai binari canonici del mondo culturale, ma con uno sguardo lucido e decisivo sulla realtà e sulle sue miserie. Sono gli anni che la porteranno a una vera e propria consacrazione poetica, trascinata da grandi successi letterari (come la vittoria del Premio Librex Montale nel 1993). Una vita costantemente sulla spola tra gli eccessi luminosi della sua scrittura poetica e le nebbie umbratili della malattia mentale: il sacrificio esistenziale di una poetessa che ha dato la sua vita, per «consegnare alla morte una goccia di splendore» (per usare le parole di un altro grandissimo eccentrico della cultura italiana novecentesca, Fabrizio De André).

La cifra di una vita votata alla poesia, che possiamo sintetizzare in questi bellissimi versi tardivi, tratti dalla raccolta Ballate non pagate, del 1995: «Getto noccioli di cartone, / suono per militi di cartapesta, / ora sono tutta funesta / e ho dato mille canzoni» (Getto noccioli di cartone).

Andrea Borio

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