Entrando in Amalfi, su un muro in mattoni grigi di una delle porte della città, davanti al piccolo porticciolo di pescatori – mentre all’orizzonte si stagliano i profili degli yacht extralusso ormeggiati al largo della Costiera Amalfitana – e al parcheggio degli autobus che percorrono avanti e indietro la costa, c’è una targa commemorativa a Salvatore Quasimodo (che proprio ad Amalfi fu colto da un ictus il 14 giugno 1968, morendo a Napoli pochi giorni dopo), con un breve scritto del poeta: «Qui è il giardino / che cerchiamo sempre e / inutilmente dopo i luoghi / perfetti dell’infanzia. / Una memoria che avviene / tangibile sopra gli / abissi del mare, sospesa / sulle foglie degli aranci / e dei cedri sontuosi / negli orti pensili / dei conventi». Frasi veloci che gettano uno sguardo su una cifra poetica essenziale, che sembra ripercorrere l’intera gittata della scrittura di Quasimodo.

Il Quasimodo più noto è sicuramente quello delle raccolte poetiche composte fra gli anni Trenta e gli anni Quaranta (Acque e terre, Oboe sommerso, Ed è subito sera), quello, cioè, legato alla nascita coeva dell’ermetismo, di cui il poeta si dichiarava il principale iniziatore. Più che un vero e proprio movimento, l’ermetismo fu un modo di fare poesia, generalizzato a buona parte degli autori attivi in quel periodo. Le sue caratteristiche essenziali erano la ricerca di uno stile chiuso (“ermetico”, per l’appunto), dominato dall’analogia, dall’essenzialità formale e dalla prevaricazione dello spazio bianco della pagina sul corpo della scrittura. A innervare questa idea di poesia e letteratura si inserisce una tensione metafisica che tende a sfociare in un solipsismo interiore che taglia fuori, in parte, i legami con la realtà e il mondo dei significati, assolutizzando la parola poetica. Davanti a un mondo deformato e irriconoscibile (quello dove prendono vita i regimi totalitari di inizio Novecento e dove si sviluppano i primi infausti germi della futura società di massa) il poeta sceglie allora di ripiegarsi in una direzione volutamente oscura e iperletteraria.

Quasimodo si forma all’interno di questa straordinaria fucina poetica, attraversandone tutto il suo lungo tracciato, per poi arrivare alle raccolte degli anni Cinquanta, dove la realtà rientra nella scrittura poetica portando con sé tutta la sua ineluttabile dimensione prosastica. Le liriche di quegli anni, raccolte in Il falso e vero verde (del 1953) e in La terra impareggiabile (del 1958), ruotano attorno a due polarità geografiche distinte e complementari: la Sicilia e Milano. La Sicilia è il luogo della memoria, scenario dell’infanzia e dell’adolescenza dello scrittore (nato a Modica nel 1901), territorio mitico delle origini, tanto dell’autore quanto della cultura occidentale, che nel frattempo Quasimodo sta recuperando attraverso un imponente lavoro di traduzione dei classici della letteratura greco-latina (i Lirici greci, Virgilio, Sofocle, Omero, ecc.).

La Sicilia evocata dal poeta è un terreno abitato dai suoni antichi della natura, dai fantasmi della memoria e dalle pulsioni ditirambiche di una vita ridotta all’essenzialità di una condizione puramente sensuale e mortale. Così, in Le morte chitarre, «Nello specchio della luna / si pettinano fanciulle col petto d’arance»; in Che lunga notte, «l’Orsa / ancora non ti lascia e scrolla i sette / fuochi d’allarme accesi alle colline, / e non ti lascia il rumore dei carri / rossi di saraceni e di crociati / forse la solitudine, anche il dialogo / con gli animali stellati, il cavallo / e il cane la rana le allucinate / chitarre di cicale nella sera»; e in Al di là delle onde delle colline, si misurano «i silenzi le voci della morte, / al di là delle onde delle colline». Mentre Tempio di Zeus ad Agrigento sprigiona attraverso la cadenza delle parole l’energia dionisiaca della cultura mediterranea: «E ride la follia dei sensi, ride / continua alla sua pelle di canicola / meridiana dell’isola / e l’ape lucida zufola e saetta / veleni e vischi d’abbracci infantili».

Se la Sicilia è la terra mitica della memoria e delle origini idealizzate dell’uomo e della cultura, Milano, invece, è il luogo della realtà presente, attuale: la metropoli industriale proiettata nell’aggressiva ripetitività della società di massa, dell’invivibilità e invisibilità dei ritmi urbani. È l’eterno inferno del presente: in costante ricerca di un altrove, di una perduta età dell’oro, di un tempo evaporato e rimpianto: come possiamo leggere nella poesia Il falso e vero verde: «Altre foglie / ora screpolano i rami e già scattano / aggrovigliate: il falso e vero verde / dell’aprile, quel ghigno scatenato / del certo fiorire. E tu non fiorisci / non metti giorni né sogni che salgano / dal nostro al di là, non hai più i tuoi occhi / infantili, non hai più mani tenere / per cercare il mio viso che mi sfugge? / Resta il pudore di scrivere versi / di diario o di gettare un urlo al vuoto / o nel cuore incredibile che lotta / ancora con il suo tempo scosceso». Inoltre, Milano è la città che si sostituisce alla natura bucolica dell’infanzia, che sembra ritorcersi in un’immagine di “natura deforme”, come in Dalla natura deforme: «Dalla natura deforme la foglia / simmetrica fugge, l’ancora più / non la tiene. Già inverno, non inverno, / fuma un falò presso il Naviglio. / […] Com’è forte / la presa, se qui da anni, che anni, guardi / le stelle sporche a galla nei canali / senza ripugnanza».

Negli anni della piena maturità, Quasimodo porta avanti un discorso poetico incentrato su questa polarità: l’attualità della vita milanese e l’inattualità della memoria siciliana. La poesia dell’autore si nutre di questa somma di contrasti, i piani si sovrappongono e si scombinano, il tempo si ingorga in questa duplice visione: alla ricerca estenuante di quei “luoghi perfetti dell’infanzia”, dove in pochi brevi istanti si gioca tutto un percorso poetico ed esistenziale. La poesia diventa il luogo del ritorno, lo specchio in cui la realtà presente converge in un’immagine della memoria: sia essa un tentativo di sovrapposizione o la rassegnazione per la sua incolmabile distanza.

Andrea Borio