Chi era Dino Campana? Sono pochi i fortunati che hanno affrontato realmente questo poeta tra i banchi di scuola sotto l’egida di un intrepido insegnante. Gli altri al massimo sanno, per qualche strano intrico dell’inconscio, ricondurre a lui solamente il titolo della sua opera più famosa: i Canti Orfici. Sembra quasi una formula magica, qualcosa che riporta ai recessi e ai primordi dell’oscurità del mondo su quel limite turbolento tra la realtà, il sogno e il mistero.

Effettivamente, l’aggettivo “orfico” rimanda, secondo l’intento di Campana, al cosiddetto orfismo, il culto dionisiaco in cui nell’antica Tracia erano confluiti alcuni movimenti religiosi di carattere mistico-orgiastico. Tuttavia, sullo sfondo di quel poco che si conosce intorno a questo movimento, acquistano un significato particolare due miti che riguardano Orfeo, il suo presunto fondatore: la katàbasis (o discesa agl’Inferi) e la sua morte per sbranamento da parte delle Menadi. Rilevante per il nostro interesse è però un elemento che precede le azioni mitiche di Orfeo, ovvero la sua identità, la sua essenza: Orfeo è il poeta per eccellenza. Figlio della Musa Calliope, Orfeo incantava con la sua poesia e il suo canto gli uomini, le bestie e le pietre. Uno degli episodi più noti legati ad Orfeo è il tentativo di riportare indietro la sua amata sposa Euridice dal regno di Ade, per mezzo della sua arte. Impresa che si conclude in un fallimento, poiché il poeta, cedendo alla debolezza umana, infrange l’unica clausola che gli era stata posta: non voltarsi a guardare l’amata fino all’uscita dell’Aldilà.

Definendo Orfici i suoi Canti (e indicando poi in modo più ampio tutta la sua produzione poetica come orfica), Campana vuole sottolinearne alcuni aspetti: il carattere di una poesia originaria, che ha radici remote e misteriose (forse anche in polemica con l’esaltazione futurista della modernità), e di una poesia notturna, che scende nei recessi profondi dell’animo umano e fa uso di un linguaggio criptico sfidando le convenzioni del linguaggio comune.

Si può notare, peraltro, una certa analogia tra la vita di Dino Campana e il mito di Orfeo: oltre a essere entrambi poeti, anche Campana amò profondamente una donna bellissima, la scrittrice Sibilla Aleramo. Tuttavia, pur avendola incantata con i suoi versi, la relazione tra i due fu di breve durata (ma di un’intensità e profondità tali da tradursi in un fitto carteggio raccolto nelle Lettere e nell’opera Un viaggio chiamato amore). All’interno degli Inediti sono presenti alcuni meravigliosi riferimenti alla relazione con l’amata Sibilla, per esempio il componimento (che ricorda vagamente La canzone dell’amore perduto di De André) In un momento: «In un momento / son sfiorite le rose / i petali caduti / perché io non potevo dimenticare le rose / le cercavamo insieme / abbiamo trovato le rose / erano le sue rose erano le mie rose / questo viaggio chiamavamo amore / col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose / che brillavano un momento al sole del mattino / le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi / le rose che non erano le nostre rose / le mie rose le sue rose».

I versi sono significativi a partire dalla loro struttura: inizialmente brevi come un singhiozzo, man mano culminano nel verso più lungo («Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose»), che pare un sospiro, e in cui si rievoca il culmine della relazione amorosa, il momento in cui, lui e lei insieme, creavano il sentimento. Il ritmo della versificazione porta quasi a immaginare il poeta che rimugina su ciò che è stato, mentre, fiore in mano, ne stacca uno a uno i petali per gettarli o lasciarli cadere nel fiume dei ricordi e del passato. A dare la definitiva conclusione del ricordo, si trova il post scriptum, che recita in forma lapidaria: «P.S. E così dimenticammo le rose». Le immagini si mescolano: i fiori da oggetti osservati diventano – o meglio, tornano ad essere – per un istante creazione comune, e poi ancora oggetto di distruzione (è l’orfismo che ritorna) di un amore che non “sfiorisce”, ma che viene “fatto sfiorire”: la scelta dei verbi esplicita un’azione concreta, una consapevolezza che solo il desiderio di Campana di cogliere l’aspetto più profondo, segreto e inconfessabile della realtà e, in questo caso, delle relazioni umane, può raggiungere.

Addentrandoci nella sua poetica, risulta lampante come Campana riesca a unire le suggestioni liriche di Baudelaire e Rimbaud alla sua particolare estraneità alla società costituita: questo è l’elemento che sconvolge l’equilibrio della scrittura e della comunicazione con aperture improvvise su fantasie oniriche, le quali trasfigurano, attraverso folgorazioni e allucinazioni, la superficie della realtà, i luoghi e le persone, per tentare di catturarne, oltre l’ordine e le convenzioni borghesi, l’aspetto più profondo e segreto.

Ritroviamo, con la straordinaria incisività delle immagini analogiche, questa opposizione alle convenzioni della borghesia e quindi anche alla poesia (esagerata e priva di ricerca o di profondità dei contenuti, secondo il nostro Orfeo), che vi circola con successo, in un altro dei componimenti raccolti all’interno degli Inediti: Nella pampa giallastra il treno ardente. La polemica è forte, le immagini sanguinolente, i versi traboccano di un carattere fortemente visionario ed espressionistico: «Ecco che viene colle gambe storte / Il mio sonetto a voi per salutare / Accettatelo bene per le rare / Virtù che porta nelle rime attorte. / E quando venga l’ora della morte / Ritorni la vostr’anima a brucare / A voi che cose peregrine e rare / Accarezzaste nelle gambe storte / […] Io cerco una parola / Una sola parola per: / Sputarvi in viso, sfondarvi». Basta una parola sola a far la differenza, una parola cercata, approfondita, come una formula magica, fulminante, per illuminare l’essenza oscura e misteriosa del mondo: per Campana, in linea coi riti orfici e violenti dell’antichità, la poesia è un fatto misterioso. E il compito del poeta è addentrarsi nel mistero.

Infine, anche per quanto riguarda l’epilogo del mito di Orfeo, ritroviamo una dolorosa analogia: Dino Campana, già soggetto a disturbi psichici, subì un vero tracollo alla conclusione della relazione con Aleramo, che preannunciava l’ultimo e definitivo internamento nel manicomio di Castel Pulci, presso Firenze, nel 1918, dove resterà fino alla morte nel 1932. È vero allora che i folli sono più vicini agli dei (e dunque alla dimensione mitologica) e che, per citare Marcel Proust, «tutte le cose più grandi che conosciamo ci sono venute dai nevrotici. Sono loro e solo loro che hanno fondato religioni (Orfeo) e hanno creato magnifiche opere d’arte (Dino Campana). Mai il mondo sarà conscio di quanto deve loro, e nemmeno di quanto essi abbiano sofferto per poter elargire i loro doni».

Spero così, con questo breve articolo, di essere riuscita a rendervi un po’ più consapevoli delle idee e dello spirito poetico, nonché delle difficoltà e dei doni del nostro Orfeo del Novecento.

Catalina Boschero