Amo i racconti perché credo rappresentino il modo in cui viviamo.
Vasi rotti, Andre Dubus
Haverhill, contea di Essex, Massachusetts. A 17 miglia dall’oceano Atlantico e a 36, più o meno, dalla città di Boston – mezz’ora in automobile, lungo la Route 93. Haverhill, sul fiume Merrimack, un tempo chiamata Queen slipper city of the world, dato che vi si produceva gran parte delle scarpe calzate dagli americani. Negli anni ’70, quel tempo era finito – una città spezzata e rancorosa, non più quella di allora e non ancora reinventata.
Andiamo un poco avanti: è l’una del mattino del 23 luglio del 1986, un mercoledì. La notte è limpida, serena. Alla guida di una Subaru, un uomo percorre la Route 93, in direzione nord. Partito da Boston, sta ritornando a casa, a Haverhill, in una zona collinare chiamata East Rocksvillage.
Il nome di quell’uomo è Andre. Andre Jules Dubus II. Indossa un paio di stivali da cowboy. Quarantanove anni – ne compirà cinquanta l’11 di agosto, tra poche settimane – due matrimoni falliti, cinque figli e un altro in arrivo – sarà una bambina, si chiamerà Madeleine. La terza moglie, Peggy, lo sta aspettando sveglia, o forse è addormentata.
È nato e cresciuto in Louisiana, tra Lake Charles e Lafayette, in una famiglia franco-irlandese, quest’uomo alla guida lungo la Route 93, illuminata dai fari della sua Subaru.
Nel corpo dei Marine dal ’57 al ’63 – da una base all’altra con la prima moglie, Nicole, e i loro quattro figli – e poi, dopo il congedo, dritto in Iowa, a Iowa City, per frequentare lo Iowa Writers Workshop (perché ha sempre voluto scrivere, Andre, non ha voluto mai nient’altro), povero in canna, costretto a vendere sangue una volta al mese, eppure felice. Nella casa accanto, allora, viveva Kurt Vonnegut, suo grande amico, e Richard Yates era tra gli insegnanti.
Poi altre case in altre città, le prime raccolte di racconti, l’insegnamento in un piccolo college – letteratura e scrittura – il primo divorzio, un altro matrimonio, un altro divorzio. Infine Haverhill, sul fiume Merrimack, un tempo città della pantofola. La nuova moglie, Peggy, ancora in piedi o forse addormentata.
Non so perché ma immagino un’autoradio accesa: musica a basso volume nell’abitacolo della Subaru. Frank Sinatra, Ella Fitzgerald, magari Pavarotti. La brace di una sigaretta. Un po’ di cenere caduta sul tappetino nero. I finestrini abbassati, le volute di fumo, l’odore della notte.
È partito da Boston, Andre, più precisamente dalla Combact Zone – un quartiere a luci rosse, molto violento, molto pericoloso – dove quel giorno ha incontrato un’amica che lavora con le prostitute, intenzionato a intervistarne alcune per un racconto che ha in animo di scrivere.
È armato, Andre, a bordo della sua Subaru, mentre percorre la Route 93, perché la Combact Zone è seriamente molto, molto violenta, molto pericolosa.
Sua moglie Peggy lo sta aspettando a casa, sul fianco di una collina a Haverhill, incinta e con la figlia Cadence. La notte è limpida, serena. Si vedono le stelle, i boschi accanto all’autostrada.
Immagino Andre pensare al suo racconto, quello che ha in animo di scrivere, la musica che riempie l’abitacolo. Sta per uscire la sua nuova raccolta – Un’ultima, inutile serata. Ha vinto una borsa Guggenheim, e un po’ di soldi gli fanno proprio comodo. È un buon momento, quello. È una notte serena.
È allora che succede.
È lungo un rettilineo illuminato, un punto della Route 93, che Andre vede un’auto ferma sulla terza corsia. C’è una ragazza in piedi accanto all’auto, in lacrime, la fronte sanguinante. Andre fa in tempo a scalare le marce e rallentare, parcheggia la Subaru sul lato sinistro, accanto al guardrail, accende le luci lampeggianti, raggiunge la ragazza. Compare anche un ragazzo: i due sono fratelli, giovanissimi – Luz e Luis Santiago – sono di Puerto Rico e lui, Luis, non parla inglese.
Por favor, señor, no hablo Ingles.
C’è una motocicletta incastrata sotto l’auto. L’hanno investita – dice Luz – dopo aver sorpassato un grosso camion. La moto era già lì, riversa sull’asfalto.
Dev’esserci qualcuno, pensa ovviamente Andre, qualcuno sotto l’auto, qualcuno messo male, probabilmente morto. C’è bisogno di aiuto, pensa Andre, per toglierlo da lì. Però, prima di tutto – la cosa più importante, da fare adesso, subito – è allontanare i due ragazzi, ancora scioccati, dalla corsia dell’autostrada, e metterli al sicuro.
È questo che fa Andre: porta i ragazzi accanto alla Subaru. In fila indiana, tagliano l’autostrada. La Route 93 in quel momento è vuota, tranquilla come un fiume sotto un cielo stellato – sua moglie è a casa che lo aspetta, sono in attesa di un bambino, Andre ha quasi cinquant’anni, è uno scrittore di racconti, bellissimi racconti, sta per uscire la sua nuova raccolta, è appena stato a Boston. Ma adesso sono lì, davanti al cofano della Subaru, e arriva un’automobile, spunta nel buio e si avvicina, su quel fiume tranquillo, vedono i fari brillare come stelle.
Andre si sbraccia: ha bisogno di aiuto, vuole indicare a chi è alla guida di fermarsi, ma l’auto non rallenta, procede veloce, e poi sterza di colpo, per evitare quella dei ragazzi, sulla terza corsia, e punta verso la Subaru – è una stella cadente, così rapida – punta sterzando verso Andre e i fratelli Santiago, e allora Andre, in un istante, afferra la giovane Luz, che sta alla sua sinistra, le afferra il braccio e poi la spinge via, dietro di lui, in direzione del guardrail, trovandosi al suo posto, e l’automobile lo investe e investe il giovane Santiago – ventitré anni, nato e cresciuto a Puerto Rico, venuto negli Stati Uniti a trovare la sorella.
Por favor, señor.
Ricordo i fari, ma non ricordo l’auto che travolse me e Luis Santiago, e non ricordo i suoni emessi dai nostri corpi.
Vasi rotti, Andre Dubus
Andre viene sbalzato in aria, vola sulla Subaru, è come un’altra stella. Cade sul bagagliaio, i pantaloni alle ginocchia. Ha perso uno stivale. E poi, di colpo, vede un poliziotto – stava viaggiando verso Boston, mentre la macchina sterzava – lo vede lì di fianco a sé, gli dice delle armi, dice che ha il porto d’armi e quindi è tutto ok, ne tira fuori una, addirittura, e gliela porge. Gli chiede, per favore – por favor, señor – di dargli una mano a sistemare i pantaloni.
Altre automobili si sono fermate, nel frattempo.
Luz sta piangendo, Luis è in fin di vita. Piange la persona che li ha appena investiti. Il fiume è straripato.
Infine – le gambe stritolate, un povero mucchietto di ossa rotte – arriva il dolore, violentissimo, quel fango denso e nero che toglie il fiato ad Andre, gli toglie quasi la parola.
Il giovane Santiago sta morendo, ma la sorella è viva.
Poi tutto corre in fretta, e siamo in ambulanza e siamo in ospedale, dapprima a Wilmington e poi al Massachusetts General Hospital di Boston, in sala operatoria – dodici ore di intervento.
Due mesi di ricovero, altri interventi ancora. I capelli di Andre si fanno più radi, la barba un po’ più grigia.
La gamba destra è andata, non c’è niente da fare. Nel mese di settembre – ormai ha cinquant’anni – gliela portano via, lasciandogli un moncone. Quella sinistra è salva, ma non potrà più usarla. Vivrà, da lì in avanti, su una sedia a rotelle.
Correva molto, Dubus, prima dell’incidente.
Scriveva i suoi racconti, la mattina – storie bellissime, davvero insuperabili: perdita e redenzione, peccati e salvezza, il modo in cui sopravviviamo a quello che ci ferisce, il modo in cui guastiamo le cose e le ricomponiamo o almeno ci proviamo, e compassione e vita e umanità – e poi, subito dopo, andava a correre. Correva e sollevava pesi, era un uomo robusto. Era stato in Marina. Teneva corsi di scrittura, amava i suoi studenti. Metteva al mondo figli, finiva matrimoni. Beveva e rideva con gli amici. Andava a caccia. Andava a messa all’alba.
Non si fermava mai.
Eppure, in viaggio verso Havervill, sull’acqua immobile d’asfalto della Route 93, fermò la sua Subaru e scese ad aiutare. La notte era serena, un tappeto di stelle. Sentì la voce di un ragazzo che stava per morire, le ultime parole pronunciate – Por favor, señor. Strappò all’asfalto Luz, perfetta sconosciuta, mettendola al sicuro.
Volò per poi schiantarsi, e infine sopravvisse – come i suoi personaggi, sì. La vita lo aspettava lungo la Route 93. La vita aspetta sempre, ci trova dove siamo.
Qualche anno dopo, disse a uno dei suoi figli (Andre Dubus III, un altro magnifico scrittore) che, pur sapendo quello che lo aspettava, quella notte, avrebbe rifatto tutto quanto, esattamente come allora.
Quando suo figlio gli domandò perché, la sua risposta fu: “Perché ho imparato tanto”.
Ventidue mesi dal giorno in cui l’auto mi ha travolto. Un anno fa, a maggio, pregando intensamente, ho perdonato l’uomo al volante… a quel punto arriva il legame trascendente e comune della sofferenza umana, e con esso arriva il perdono, e con il perdono l’amore.
Vasi rotti, Andre Dubus
Morì il 24 febbraio del 1999. Morì d’inverno, ma non è morto affatto, no, per noi che lo leggiamo. È vivo più che mai. Calza stivali da cowboy, fuma una sigaretta. In sottofondo, la voce di Ella Fitzgerald, di Frank Sinatra o di Luciano Pavarotti. Una canzone malinconica e bellissima – com’è la vita, no?
Guida la sua Subaru in una notte limpida, pensando al prossimo racconto. Oppure pensa a Cechov, uno dei suoi maestri. Magari pensa ai figli o alla moglie Peggy, alla sua casa a Haverhill, un tempo città della pantofola, un tempo una vera regina, solo in attesa di rialzarsi.
Si vedono le stelle, al di là del parabrezza: tu guarda che spettacolo.
Prima nota a margine: il viso di Andre Dubus mi commuove – somiglia sorprendentemente al viso di mio padre, dovete credermi sulla parola.
Seconda nota a margine: rileggo da anni i suoi racconti, tutti pubblicati da Mattioli 1885 e tradotti magistralmente da Nicola Manuppelli. Storia di un padre, soprattutto, nella raccolta I tempi non sono mai così cattivi. E quel finale, quel finale…
Terza nota a margine (che poi a margine non è): non c’era nessuno, incastrato sotto l’auto dei fratelli Santiago. Il guidatore della moto, ubriaco fradicio, era caduto lì, sulla terza corsia dell’autostrada, si era rialzato in piedi, aveva abbandonato la moto e si era allontanato barcollando, attraversando i boschi, diretto chissà dove.
Non c’era nessuno, Andre – roba da non crederci, sul serio – ma non è questo il punto.
Elena Varvello
E tu cosa ne pensi?