Ci sono libri, nella storia della letteratura, di cui ciclicamente si torna a parlare senza che mai raggiungano quella larga diffusione tra i lettori che alcuni appassionati lettori, quasi con ostinazione insensata, sono convinti che sarebbe naturale e doveroso che raggiungessero.
Ci sono ovviamente libri che sfuggono a qualsiasi tipo di etichetta che il mondo editoriale o i lettori stessi vorrebbero appiccicarci sopra per meglio maneggiarli quando ne parlano.
Ci sono libri che dalla prima parola, quindi dal titolo, già ti chiedono di impegnarti in qualcosa che non hai esattamente capito cosa sia ma sei abbastanza insensatamente convinto che non sia una fregatura.
Avrete intuito da questa premessa in trilogia che sto parlando di un libro che inserisco nella mia categoria mentale dei libri insensati, di quei libri che a mio avviso puntano il loro orizzonte non solo verso il racconto di una storia, ma verso il racconto di tutte le storie del mondo con un atto di superbia verso la letteratura e le sue possibilità talmente grande e non interrotto da riscuotere la mia ammirazione di uomo e la mia piena disponibilità a tutto di lettore, nonché la mia approvazione di scrittore che pensa che questo sia l’unico modo di fare letteratura.
Riuscire a farla è un altro paio di maniche, ma l’importante è provarci senza rinunciare prima. Rinunceremo anche troppo quando saremo morti.
Questo è il caso del Dhalgren di Samuel Delany (perlomeno qui in Italia perché in patria vendette un milione di copie quando uscì). Da noi invece Dhalgren fu pubblicato per la prima volta da Libra editrice nel 1982 e dopo essere stato dimenticato per anni recentemente è stato ristampato da Fanucci nel 2005, rimanendo comunque sempre confinato come la città in cui la sua storia è ambientata in un territorio tutto suo raramente raggiungibile dai lettori), romanzo che definire di fantascienza è a mio avviso ridicolo. Non ho mai capito perché quasi automaticamente i libri che raccontano storie a venire nel nostro presunto tempo rettilineo debbano necessariamente, anche se di striscio, essere comunque inseriti in un contesto denominato fantascienza. Il Dhalgren, molto più di analisi saggistiche o romanzi spudoratamente incentrati sul qui e ora sta succedendo questo, parla di noi, della nostra società ora e sempre, della costante evoluzione del linguaggio e del pensiero dell’uomo, dei suoi sensi approssimativi e costrittivi, del divino, se vogliamo, che ognuno di noi è, ogni giorno non essendo altro che la rigenerazione continua di una parte di universo in noi, universo che senza di noi non esisterebbe nemmeno.
Anche Noi di Zamjatin (Lupetti 2009 e ristampa 2011), libro che amo molto, scritto nel primo quarto del ‘900 e proiettato in un lontano futuro più per ragioni di opportunità forse che non narrative, parla di Noi ora e adesso, con tutte le sfumature del caso, e parla della Russia rivoluzionaria elevata a sistema oppressivo prima ancora che si concretizzasse nei suoi autori quel sistema oppressivo così concepito. Se questa è fantascienza.
Samuel Delany scrittore afroamericano che compie il Dhalgren negli anni ’70 del secolo scorso, definito spesso in patria in quegli anni negro, ateo e bisessuale è uno scrittore che non ha paura di maneggiare una materia che sa di non conoscere: la scrittura. Nessuno conosce la scrittura (e Delany parte da questo assunto di base mi sembra), nessuno sa come usarla e quali effetti può produrre, possiamo solo addentrarci verso quelli che pensiamo siano i suoi limiti rappresentativi e sperare di caricare il massimo significato possibile in quello che stiamo scrivendo senza rimanere intrappolati dall’indefinito o dal nitore mistificatorio della chiarezza omnicomprensiva. È l’equilibrio nell’eccesso che anch’io spesso ho vagamente in mente come unica strada da percorrere verso la reale possibilità di comunicare, comunicare veramente qualche cosa, come sopra così sotto.
Le intenzioni di Delany sono chiare fin dall’inizio, e non è strano infatti che per entrare nel Dhalgren sia necessario superare una barriera disorientante che percorre almeno le prime cento pagine disseminando vuoti e dissesti ovunque, scoraggiando il malcapitato lettore. Nella traduzione italiana sicuramente non si può apprezzare la ricerca linguistica e di contenuti, la costruzione letteraria e semantica dell’opera di Delany (e non mi metto nemmeno a poter immaginare ora come ora di poter leggere il testo in lingua originale sperando di riuscire a leggerlo), ma, seppure svilita da una traduzione che immagino di una complessità assurda se il traduttore ha vagamente capito cosa stava traducendo, la ricerca e l’intenzione di Delany trapelano tutte e in alcuni punti diventano manifestazione letteraria enorme nonostante tutti i limiti di ricezione fin qui descritti.
La storia inizia con un ragazzo ai confini di una città, Bellona, che è una città americana che vive, a quanto si dice, in una sorta di indipendenza dal resto del mondo, da cui molti che vi sono entrati non sono più tornati. Si mormora di uno strano evento, Delany sottende quasi che chi arriva lì arriva seguendo un richiamo non rigettabile, qualsiasi tipo di persona sia stato nella sua vita prima di entrare a Bellona.
Il protagonista chiamato ovviamente Il Kid, in qualche modo, supera anch’egli la barriera insieme a noi e arriva in città e da quel punto in poi si susseguiranno una serie di personaggi ed eventi dove ogni cosa non è quella che sembra ma non è neppure, probabilmente, qualcosa che si possa intendere: è una sospensione di ciò che conosciamo, una dissoluzione controllata verso la rinascita.
Nel romanzo presto si fa pace con la ricerca di risposte, ma proprio in quel momento la sete di percorrere il viaggio si fa più intensa grazie alla bravura di Delany nell’attrarci in un mondo che manipola abilmente e altrettanto abilmente riesce a demolire attraverso i cambiamenti di prospettiva interpretati dai vari personaggi che prendono parte a questo canto corale. Si, perché nonostante l’assoluta centralità del protagonista si ha continuamente l’impressione (voluta dallo scrittore certo) che ci si trovi in un mondo corale e interconnesso, in una recita non recita composta di sottili linguaggi e metalinguaggi ove solo l’esistenza stessa del Kid sembra essere il motivo della direzione di questa sontuosa orchestra che guarda stelle che noi non vediamo e sbriciola strade al suo solo passaggio.
A Bellona, ad esempio, esce un giornale, pubblicato da un influente personaggio che si muove dietro le quinte, che porta ad ogni uscita una data casuale ma reale, un giornale che tiene informati tutti i cittadini di Bellona su ciò che accade. Ma questo semplice espediente in realtà, a guardarlo da fuori, sconvolge tutto. Quello che leggiamo anche noi sul giornale insieme ai suoi cittadini quando è accaduto? È già accaduto o sta accadendo ora, o sta per accadere? E in ognuno dei tre casi, come si è potuto scriverlo sul giornale senza esserne stati testimoni diretti o indiretti? Perché le informazioni contenute in quel giornale sono sempre, anche quando comprensibili con una certa logica o con una certa supposizione, discroniche rispetto alla storia che stiamo vivendo? È solo il semplice espediente della scelta di una data casuale a cambiare le cose o la storia umanamente narrata di Bellona sta cercando di comunicarci qualcosa attraverso uno strumento riconducibile all’esperienza umana?
Questo è solo un semplice, forse il più lapalissiano, esempio dell’atmosfera che ad un certo punto pervade la lettura del libro. Ma l’altra stupefacente alchimia è la possibilità di non soffermarsi sulle domande che si affollano, quasi che ad un certo momento si raggiungesse la consapevolezza che tutte le domande hanno una sola risposta davvero e si può continuare la strada perché è inevitabile andare verso quella risposta, che si sa, non arriverà mai pienamente per come noi la possiamo intendere.
Non vorrei essere frainteso e dare l’idea che il Dhalgren sia un libro di insegnamento, che voglia a tutti i costi in-segnarci qualcosa. Tutt’altro, è un libro che, se siete dediti ai piaceri della lettura, farà di tutto per mostravi miseramente tutto quello che potete fare come lettori in una storia, in assoluta libertà, portandovi in giro attraverso essa.
Se è vero che il successo americano del libro sarà stato in parte dovuto al clamore suscitato dalle frequenti scene di violenza e sesso (omo ed etero) che, come sempre, scatena morbosità talvolta mal riposte, è certo che le parti migliori del romanzo si snodano nei dialoghi che il Kid ha con alcuni personaggi come il poeta Newboy o nel confronto a distanza che ad un certo punto si crea nella storia tra lui e George, gigantografia in icona prima ancora che persona in carne ed ossa per i neri di Bellona, quasi santificato da loro per aver violentato una ragazza bianca. Agghiacciante, nella prima parte del libro, il contatto del Kid con una tipica famiglia di Bellona, una tipica famiglia americana che, contro ogni realtà che la circonda continua a simulare la sua vita precedente. Il padre ogni giorno finge di andare ad un posto di lavoro che non esiste più da tempo perché abbandonato da tutti, la madre assume il Kid per fare un trasloco in uno degli appartamenti rimasti liberi ai piani superiori. Sarà forse l’accoglienza a suo modo calorosa che questa famiglia offre al Kid a portarlo definitivamente ad immergersi in Bellona per cercare la sua strada e non vivere più nascosto in una finta vita.
Gli schemi abituali dell’intercorrere del tempo saltano nella poderosa costruzione romanzesca di Delany e questa stessa decostruzione trascina o spinge innanzi anche la consueta sicurezza che usiamo per distinguere gli eventi, le emozioni e i nostri pensieri razionali, anche quando leggiamo solo una storia. L’esergo di Stanley scelto da Delany in apertura di libro è , a tal proposito, emblematico e definitivo al contempo: Voi avete confuso il vero ed il reale. Ogni particolare del libro è un inno alle possibilità della scrittura come sostanza (e non come molti scrittori americani tendono a produrre come maniera), scrittura come tentativo di comunicare l’impenetrabile.
Disgraziatamente, anche tentare in poche righe di fornire un quadro esaustivo di ciò che è il Dhalgren di Delany, non può essere altro che un tentativo di comunicare piuttosto di maniera il cui unico scopo è solamente, come dovrebbe essere, spingere più persone possibili a mettersi in cerca di questo stupefacente libro. Tutto il resto è che ci sono libri.
Simone Battig
Strabook! è una rubrica di interviste o consigli di libri e di autori cult che oggi nessuno ricorda (o quasi).
25 Giugno 2019 at 12:29
” romanzo che definire di fantascienza è a mio avviso ridicolo.”
Al contario, ciò che è davvero ridicolo è la corsa a definire “non fantascienza” qualsiasi opera con un minimo di valore letterario.
24 Agosto 2019 at 11:18
Gentile Libero, ognuno la pensa come vuole, l’importante è avere argomentazioni per sostenere le proprie tesi.
Qui sul web non c’è molto spazio e molta attenzione per poter scrivere articoli lunghissimi o saggi che stroncherebbero il lettore occasionale (e non) dopo tre o quatttro minuti, per cui cercherò brevemente con questo mio commento di ribadire perché ho scritto quello che ho scritto se non fosse abbastanza chiaro. Magari il mio difetto è credere che certe cose siano scontate quando invece lo sono solo per me.
Prima di tutto io non credo alla classificazione in generi letterari dato che è una semplificazione abbastanza superficiale della letteratura che io ho sempre immaginato servire ai librai pigri per mettere i libri negli scaffali e non parlare con i lettori (o agli uffici stampa che non sanno che dire perché non hanno letto il libro del loro autore). Questa cosa poi è esplosa con la produzione di massa (66000 titoli l’anno stampati in italia… e come fa un povero libraio a spiegare ai suoi clienti di cosa parla x o y libro…). In poche parole un grande libro travalica i generi e le etichette che vogliamo dargli anche se ci ostiniamo a volergliele dare. Basterebbe questo credo per spiegarmi.
Aggiungo che la fantascienza è nata come genere popolare (pop?) che non è un demerito, anzi, ma con linguaggi e immaginario credo completamente diversi da quello che prova a fare Delany in questo libro ( e non in altri suoi ad esempio che si possono tranquillamente definire fantascienza) che è tutt’altro che popolare ma di difficile lettura …
Infine la fantascienza cosa è ora?.Se guardiamo al procedere della scienza verso la cosidetta singolarità ipotizzata da persone come Kurzweil comincia a diventare difficile distinguere tra distopie, fantascienza, ucronie, libri pseudoscientifici, romanzi mondo e chi più ne ha più ne metta. Quindi se rimaniamo in termini “classici” (che so, mondi del 3000 astronavi tipo startrek etc etc..) come possono esserci degli standard ad esempio nel giallo possiamo, sempre con mio disgusto, naturalmente mettere l’etichetta fantascienza o giallo o romanzo d’avventura o quello che vuoi, ma se il libro in questione fa altro, narra altro, usa linguaggio altro, tocca altro .. be’ allora io mi rifiuto di usare un’etichetta, meno che mai se può essere intesa male da taluni snob (che ci sono) che magari troverebbero meraviglioso leggere questo libro ma non lo leggono perché qualcuno gli fa pensare che sia un llibro di “fantascienza”. Evitiamo i generi, diamo a tutti la possibilità di legere libri meravigliosi senza confondere a priori le acque.
Tutto qui. Poi puoi continuare a pensare tranquillamente che io sia un estensore di pensieri ridicoli sulle etichette letterarie e di genere e tutto andrà avanti lo stesso. Ma grazie per avermi dato la possibilità di precisare ulteriormente.
8 Dicembre 2019 at 9:50
Caro Simone, Salvatore Battaglia avrebbe detto che le classificazioni si applicano solo ai mediocri, la grande letteratura non può essere etichettata entro schemi preconfezionati. Sulla fantascienza sono completamente d’accordo con te; io ho scoperto che Vonnegut è considerato uno scrittore di fantascienza molto dopo aver letto quel capolavoro che è Mattatoio n.5