Sono completamente senza una storia.

Il sognatore di Dostoevskij, protagonista de Le notti bianche è chiuso nel suo cantuccio, assorbito dalle sue elucubrazioni, trasformato in un pensiero, plasmato da un sogno. Non vive una sua storia perché ne vive tante altre, tutte diverse, tutte immense, quanto lo è l’immaginazione e la sua potenza.
Ne Le notti bianche è descritto come un essere neutro, rinato sotto l’ombra di una fantasia che lo ha catturato e divorato nelle sue trame. E nell’opera di Luchino Visconti è Marcello Mastroianni a impersonarlo, a ricalcarne i contorni sbiaditi.
Le notti bianche sono poesia, un racconto di un sogno d’amore, di un’esistenza non vissuta, che anche solo per un attimo, per un minuto di beatitudine, è riuscita “a colmare tutta la vita di un uomo.”

Mastroianni nella sua forza è riuscito a incarnare le vesti di un sognatore perso, sconfinato, che cade in un amore non corrisposto e lacerante per una donna promessa a un altro. La storia di Natalia (nel libro Nasten’ka) è struggente come lo è lei, spezzata dalla sofferenza dell’attesa per colui che è andato via e le ha promesso che dopo un anno ritornerà.
Mastroianni si trasforma nel protagonista dostoevskiano, ne trasmette le sensazioni, i dolori, le gioie, i patimenti per un sentimento impossibile, ci accompagna nelle sue passeggiate, ci rende partecipi delle sue insicurezze, delle sue fantasie, della sua inafferrabile solitudine.
Ma per quanto la regia di Visconti, seppur risalente al ’57, sia sublime, la sceneggiatura singhiozza, devia dal racconto originale e lascia intravedere altro che va a sporcare la narrazione. Nell’arco finale della storia, Mastroianni abbandona Natalia, è stremato dal doversi mettere da parte per un amore che non ha mantenuto le sue promesse, e va via, ritrovandosi con un’altra donna e poi in una rissa, del tutto inverosimile. Quegli attimi, come il momento della danza scatenata e dei capricci di Natalia nel bar, guastano l’atmosfera di tensione struggente creatasi dall’inizio della pellicola. Scelte che infatti non si ritrovano nel capolavoro di Dostoevskij.

Sia Visconti che lo scrittore russo, scelgono di mostrare al pubblico Natalia diversa da come il nostro sognatore la vede annebbiato dal suo sentimento e dal filtro dell’immaginazione. Natalia è frivola, egoista, incosciente, sa già che Mastroianni non potrà non innamorarsi di lei, ma nonostante questo lo inganna, lo tiene a sé per paura di rimanere sola, abbandonata, dimenticata. Eppure non la sia può biasimare, è malata d’amore, e questa è una follia che non perdona, ma travolge, ci rende avari di comprensione e attenzione. Tutti siamo stati Nasten’ka una volta nella nostra vita, tutti abbiamo chiesto aiuto a discapito di chi ci era vicino e ci amava, e tutti siamo stati un rifugio per chi soffriva e abbiamo amato incondizionatamente, non importa a quale costo.
Film e libro combaciano su questo punto: i giochi di luce di Giuseppe Rotunno (il direttore della fotografia) risaltano i volti trasformati dal dolore di Mastroianni e Maria Schell, così come le parole di Dostoevskij ne impregnano le pagine.

Il film è realizzato interamente nel teatro 5 di Cinecittà ed è ambientato a Livorno, di cui sono stati ricreati alcuni scorci, a differenza del libro in cui fa capolino una splendida San Pietroburgo, con i suoi parchi e i suoi palazzi ottocenteschi. Purtroppo, manca la possibilità di ammirare la bellezza della città degli zar, ma l’attenzione si sposta su Marcello Mastroianni, in grado di incarnare e mostrarci l’anima del sognatore schilleriano che trascorre i suoi giorni nella dimensione delle sue illusioni, lontano dalla realtà.

Ciò che manca per chi ha divorato il libro, è il racconto, durante la seconda notte, della storia del sognatore, della sua dedizione ad amare l’ora del giorno in cui tutti rientrano dal lavoro e sono felici di potersi godere la libertà, del suo amore per la città, i suoi abitanti, i suoi palazzi colorati, per le storie che inventa e lo perseguitano, della sua sofferenza per la solitudine in cui termina le sue giornate e si risveglia al mattino. Nel film di Visconti invece è la storia di Natalia a prendere il sopravvento, a mantenere viva la vicenda. C’è meno introspezione, se non attraverso gli sguardi e il volto di Mastroianni, nel suo modo di fare, di parlare, nei suoi gesti.
Per quanto Maria Schell regga il paragone con Nasten’ka, è impossibile non chiedersi quanto avrebbe influito dare più spazio ai tormenti del protagonista, redendoli importanti e narrativi quanto l’amore.

La sceneggiatura di Luchino Visconti e Suso Cecchi D’Amico per quanto prenda altre vie rispetto al testo a cui si è ispirata, è riuscita invece, a rendere narrativo il racconto di Natalia, attraverso l’uso del flashback. L’intento era quello di mostrarci ciò che è detto a parole, così come il Maestro Dostoevskij riesce a fare seppur solo scrivendo.

Per quanto un libro sia in grado di entrare nella nostra mente e lasciar lavorare l’immaginazione, il cinema ha bisogno di organizzare le immagini, di momenti che abbiano un perché e dimostrino il tema che si vuole raccontare, è per questo che le scene devono essere strutturate e devono portare lo spettatore da un punto A ad un punto B. Ogni film è costruito in tal modo e lo è anche Le notti bianche, in cui grazie a ciò che vediamo comprendiamo il dolore, l’amore, il sogno, la solitudine. Ma alcune scelte, come il giro in barca prima dell’epilogo, sembrano appesantire una narrazione già di per sé poetica e distante dalle classiche pellicole più popolari. Per quanto abbiano un perché (per esempio la lotta fisica è sintomo di una lotta interiore dolorosa), non devono essere inserite a giustificare, ma alle volte lo spettatore può essere lasciato libero di trarre le sue conclusioni, anche senza dover necessariamente spiegare.

L’epilogo finale si interrompe con la disfatta dei sogni del protagonista, abbandonato da Natalia che ha ritrovato il suo amore. Il libro invece concede un piccolo riscatto a Nasten’ka (scrive una lettera di scuse al suo “amico”), ma allo stesso tempo sancisce ancor di più la sconfitta del sognatore che ormai si rintana nel suo angolo di protezione, divorato dalla vendetta del destino.

Seppur con alcune debolezze, il film di Visconti rimane un piccolo capolavoro, che può essere visto e apprezzato a prescindere dal suo corrispettivo letterario.

Intramontabile rimane, invece, il racconto di Dostoevskij, nel quale i sognatori siamo Noi, è lui, siamo tutti. E lo saremo sempre, a prescindere dal tempo.

Ilaria Amoruso