Il posto dove si sarebbe svolto il festival sarebbe stato il prato di fronte al mattatoio, questo era chiaro, era il posto ideale: erba, alberi, nessuna casa nei paraggi, qualche orto abusivo distante, in lontananza la tangenziale. I ragazzini che ci andavano a giocare avevano scritto con lo spray, non senza una certa sottile ironia, “Stadio Maracanã”. Perciò il festival si sarebbe chiamato così: Festival Maracanã.

Questo hanno deciso Ale, Casimiro, Tommy, Lino e Barbara, cinque amici con trent’anni alle spalle e poche prospettive davanti, cresciuti in un quartiere dove l’aspettativa di vita era al massimo di quarant’anni, perché poi sopraggiungeva una morte violenta in carcere o fuori, per abuso di alcol o per ferita di arma da fuoco.

Con un entusiasmo quasi bambinesco cominciano a organizzare il festival musicale, ma la loro aspirazione si scontra presto con una burocrazia macchinosa, e il progetto si trasforma in un’avventurosa impresa. Affrontano telefonate con segretarie ansiose, riescono a strappare un misero finanziamento dall’improbabile Assessore alla Cultura Calamaro, sostengono code interminabili per permessi che non possono permettersi di pagare, e quindi alla fine fanno un po’ a modo loro.

Poi c’erano da cercare altri che suonassero. E soprattutto che lo facessero gratis. Per questo bussano alle porte delle band più sbandate ed eccentriche di Torino. Ci venne ad aprire un grassone con la testa esplosa di dread, la faccia da canarino incattivito, labbra piccole, naso adunco, l’ombelico di fuori. Da dentro fuoriuscì del fumo che ci fece pensare a un principio di incendio.

“Prendono in prestito” tavoli, sedie e gazebo dalla cooperativa dove lavora Casimiro, appendono di notte le locandine disegnate da loro, combattono un’invasione di zingari. E il festival non è ancora cominciato.

Il gruppo di amici si muove nella periferia di Torino, che nella letteratura italiana non appare spesso,  – soppiantata dal Rozzano milanese e dalla Rebibbia romana  – forse perché più contenuta e meno violenta, ma non per questo è meno problematica. Di fronte alla famiglia cinese che vive in un negozio abbandonato e vende il frigo perché tanto non ha la corrente per accenderlo, anche l’inguaribile ottimismo del gruppo per una frazione di secondo si scheggia.

A raccontare la storia è Ale, ma l’impressione è quella di un “noi”, una narrazione collettiva di cinque amici allacciati insieme dal loro piccolo grande sogno.

Il tono di Ale è ironico e brillante, ogni tanto velato da una patina malinconica, il suo occhio è attento ai dettagli, dando corpo a descrizioni suggestive, e la voce è semplice e scorrevole, ma non semplicistica.

Leggere questo romanzo di Vito Ferro è un po’ come essere seduti al bar davanti a una birra, di fronte a un amico, e lui con ampi gesti ti racconta qualcosa che gli è capitato, e la sua storia è talmente piena di eventi assurdi, che non sai se crederci oppure no.

Lara Centamori

Il libro Festival Maracanã sarà presentato durante l’Independent Book Tour a Verbania il 23 settembre presso la Biblioteca Civica Pietro Ceretti nell’ambito di LetterAltura.