“Ma i morti cosa dicono?” Al centro esatto di E Johnny prese il fucile c’è questa domanda ed è la domanda a cui l’autore Dalton Trumbo cerca di rispondere raccontando la storia di Joe Bonham, giovane soldato rimasto gravemente mutilato dalla scoppio di una mina durante la Prima Guerra Mondiale.
Cosa dicono i morti della guerra? Perché i vivi si spendono in grandi discorsi sull’onore, la patria, la libertà, gli ideali, su tutto quello per cui varrebbe la pena morire ma “solo i morti sanno se vale la pena morire per tutte quelle cose di cui la gente parla. E i morti non posso parlare.” Ecco allora che Trumbo dà voce (o meglio, pensiero) alla “cosa più vicina a un morto che ci fosse sulla terra”: il corpo mutilato di Joe, ridotto a un tronco senza arti né volto e tenuto in vita da un insensato accanimento terapeutico. È un corpo che non può più ascoltare, vedere, gustare, toccare, parlare, camminare, odorare, che ha perso tutto ciò che rende un essere umano vivo, a cui rimangono solo il cuore, con le sue emozioni – talvolta estremamente dolci, talvolta impetuose – e la mente, il pensiero. Pensiero che tracima all’interno di queste pagine in un flusso di coscienza quasi ininterrotto, parole dette (anzi no, pensate) senza fiato, senza neanche le pause delle virgole, che travolgono il lettore e che rallentano soltanto quando affiorano i ricordi e la dolcezza del ricordo lascia il tempo di prendere fiato.
Non si può dire che ci sia una trama vera e propria in questo romanzo. È il racconto diretto, vissuto dentro la sua mente, della presa di coscienza di Joe della sua condizione. Joe si risveglia in quello che capisce essere un letto d’ospedale (ma dove?) e poco alla volta capisce che non ha più un braccio, due braccia, le gambe, il volto, e noi lo capiamo con lui. Trumbo trascina il lettore dentro la testa di Joe in un modo estremamente coinvolgente. Lo fa attraverso un flusso di coscienza costante in cui si passa dalla prima, alla seconda, alla terza persona senza stacchi e attraverso l’uso vivo, intenso, di sensazioni che coinvolgono tutti i cinque sensi. Joe, per quanto privato di quasi tutto ciò che gli permetterebbe di provare sensazioni, è travolto dalle sensazioni, a volte ricordate, a volte sognate, a volte vere, vissute. È attraverso le sensazioni e l’assenza di esse che comprende la sua condizione ed è attraverso le sensazioni – tattili, le uniche che gli sono ormai concesse – che, una volta consapevole di quello che è, tenta di intraprendere un’impresa grande, grandissima: comunicare con gli altri. Perché lui è un morto e vuole parlare, e vuole parlare della guerra.
Quello che Joe dice nella sua e nella nostra testa e cerca di dire al mondo è un grido contro la guerra perché alla fine la guerra non è altro che una macelleria. Non c’è nessun motivo valido per cui un giovane dovrebbe morire. “Giaceva supino e pensava oh Joe Joe questo non è posto per te. Questa non è guerra per te. Che ti importava di salvare il mondo per la democrazia? Tutto ciò che tu volevi fare Joe era di vivere.”
Ma oltre al grido contro la guerra c’è altro nella testa di Joe. Quello che, dato l’argomento, potrebbe essere un romanzo cupo e inquietante è invece allo stesso tempo condanna della guerra e inno alla vita. La consapevolezza di ciò che non può più fare o provare ti porta a capire quanto belle e preziose siano le cose della vita, a partire dai ricordi di momenti preziosi fino alle cose più piccole e apparentemente insignificanti: “che incredibile cosa che fantastica meravigliosa cosa ruotare gli alluci” pensa Joe quando ha capito di non avere più le gambe. E ti porta alla fine a urlare con Joe a quelli che mandano i giovani a combattere “voi siete degli ipocriti e dei figli di puttana e noi non combatteremo noi non moriremo noi continueremo a vivere siamo noi il mondo siamo noi il futuro e non vi permetteremo di mandarci al macello qualunque cosa diciate qualunque discorso facciate qualunque slogan inventiate”. Perché non c’è niente di nobile nel morire. Niente è più importante della vita.
Questo è l’unico romanzo di Dalton Trumbo (1905-1976), sceneggiatore che negli anni del maccartismo fece parte dei famosi “dieci di Hollywood” che si rifiutarono di rispondere alle domande della “Commissione per le attività antiamericane” e per questo fu condannato a un anno di reclusione e bandito da Hollywood. Nonostante questo firmò diverse sceneggiature sotto pseudonimo per poi rivedere il suo nome sullo schermo nel 1960 come sceneggiatore di Spartacus, decretando la fine della lista nera di Hollywood. Dal romanzo Trumbo trasse e diresse un film nel 1971, esordendo nella regia, nel periodo più tragico dell’intervento americano in Vietnam.
Il romanzo, che narra della Prima guerra mondiale, fu pubblicato pochi giorni dopo lo scoppio della Seconda. Trumbo potè vedere altre due guerre drammatiche, quella di Corea e quella del Vietnam e la sua posizione sulle guerre non cambiò ma anzi forse si inasprì col conflitto del Vietnam. Nel ’48 Hemingway scrisse, nell’introduzione ad Addio alle armi, che “dal 1933 forse è chiaro perché uno scrittore debba interessarsi al continuo, prepotente, criminale, sporco delitto che è la guerra”. Leggendo E Johnny prese il fucile è difficile non sentire l’eco delle parole di Hemingway che, nell’introduzione, continuava così: “Sono persuaso che tutta la gente che sorge a profittare della guerra e aiuta a provocarla dovrebbe essere fucilata il giorno stesso che incominciano a farlo da rappresentanti accreditati dei leali cittadini che la combatteranno.” Ecco perché questo è un romanzo che dovrebbe essere letto in ogni tempo.
Piccola postilla musicale: il romanzo fu di ispirazione a James Hetfield dei Metallica per la canzone One (1988), dove usarono anche spezzoni del film per il videoclip.
Elisa Bedoni
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