C’è qualcosa che lega il sapore dolce, e tutte le sue materializzazioni in forma di zollette di zucchero, caramelle, gelatine, marmellate, torte, biscotti e dolcetti di vario genere alla paura nella sua forma più invisibile e disturbante, così come i denti che li masticano, la lingua che li rigira in bocca, le mani che diventano appiccicose e ne assorbono l’odore.

Sarà forse l’idea peccaminosa di mangiare qualcosa di proibito, o quella di ascendenza più antropologica che i dolci siano parte di un rituale arcaico di sacrificio, trasformatosi nel tempo nei momenti dedicati al tè al caffè, alle merende e ai picnic ovunque consumati, anche alle pendici dell’australiana Hanging Rock.

Ricordate l’attrazione conturbante provocata dall’immagine di fragole, panna e zucchero che si trova sulla copertina di Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson, scelta davvero eccellente di chi ha curato l’edizione Adelphi del romanzo?

Per non parlare della casetta di marzapane di Hansel e Gretel, del tè del Cappellaio matto o del fatto che nella versione di Luca Guadagnino del capolavoro di Dario Argento Suspiria le streghe passano il tempo al tavolo di una perenne e ricca colazione.

Sarà forse per questo che in Strega, primo romanzo della scrittrice e traduttrice svedese Johanne Lykke Holm vincitore dell’English PEN Award, abbondano e quasi straripano i riferimenti a torte, caramelle, marmellate e bevande dolci di ogni tipo, descritte con tale vividezza sensoriale da farcene sentire l’odore, il sapore e la consistenza in bocca.

Fin dall’inizio del racconto la giovanissima Rafaela e le altre ragazze che come lei sono arrivate per lavorare come cameriere all’hotel Olympic – decaduto resort montano di kubrickiana memoria che si raggiunge solo in funivia dal paese di Strega – di caramelle, marmellate e bevande dolci ne consumano in grande quantità, quasi a esorcizzare il rituale del passaggio all’età adulta che cerca di compiersi sotto le direttive delle istitutrici Rex, Toni e Costas.

Di queste ragazze non sappiamo nulla, se non che hanno diciannove anni e che si sono tutte lasciate alle spalle qualcosa, forse una colpa, forse solo una famiglia, una relazione o un’idea della vita.

Ogni giorno questo piccolo gruppo “vergini suicide” impara ad apparecchiare tavoli e rassettare stanze vuote in maniera impeccabile per ospiti che non arrivano mai. Galleggiando nel tempo infinito dell’attesa le ragazze si intrecciano a vicenda i capelli e si confessano piccoli segreti, creando rituali propiziatori che non basteranno tuttavia a tenerle al riparo dall’irruzione del male nella loro fragile fortezza Bastiani, assecondata forse dalle stesse persone che dovrebbero proteggerle.

In questo romanzo di formazione dal vago sapore bernhardiano, in cui sembra succedere poco ma succede tutto, ogni cosa assomiglia a un’altra già conosciuta, ma nulla è davvero quello che sembra, come fosse solo il riflesso di qualcosa che non riusciamo a cogliere con precisione, guardando attraverso un vetro appannato dalla pioggia e dalla nebbia che spesso accompagnato le giornate delle protagoniste.

Così tutto è nominato ma non definito, ed echeggia un significato diverso da quello con cui lo conosciamo, più simbolico e misterioso, senz’altro più profondo e potente, così come i sensi delle ragazze che colgono in maniera quasi intollerabilmente intensa sapori, odori e sensazioni, senza voler dare loro un senso.

Si è scritto molto sul significato di questo racconto come metafora della faticosa liberazione femminile dall’oppressione patriarcale. A me sembra però più forte il messaggio legato al passaggio di queste giovani donne dalla confusa crisalide dell’adolescenza, in cui ogni sensazione è al tempo stesso amplificata e limitata, alla forma più definita e libera, ma anche decisamente meno magica, dell’inizio dell’età adulta, che corrisponde all’abbandono dell’hotel e del paese di Strega.

Un passaggio cruciale, legato alle forze naturali che si manifestano squassanti e incomprensibili nel corpo femminile, che richiede di essere nutrito con lo zucchero e che spesso ci allontana dal nostro potere primordiale, quello che l’autrice riesce a ricordarci con la sua scrittura in maniera così sotterranea, viscerale, perturbante e insinuante.

Un plauso infine alla casa editrice NNEdizioni, che a partire da questo quarto volume della collana “Fuggitive” inserisce un’appendice finale per approfondire i temi trattati in maniera multidisciplinare e aprire ulteriormente l’orizzonte della discussione.

Gaia Passamonti