Anna Coleman Ladd fu una scultrice statunitense che dedicò la sua vita alla ricostruzione, con maschere di rame, dei volti mutilati dei soldati della Prima Guerra Mondiale. Michele Caccamo in Fili di rame e d’amore immagina il ritrovamento del suo diario da parte di due ricercatori, Rove e Jolie.

La storia è ambientata in una Parigi distopica del futuro, in un imprecisato anno nel quale la pandemia del 2020 è ricordata come un evento passato; il mondo nel quale i personaggi si muovono è ormai da tempo asservito a un Governo Mondiale, che ha ordinato la distruzione di tutte le memorie del passato, in un’atmosfera da Farhenheit 451. In questo progetto rientra anche la massificazione delle coscienze, perfino dei volti. Infatti, all’EAC (Expressive Adjustment Center), Rove lavora presso un medico, il dottor Levy, incaricato dal Governo Mondiale di livellare il volto dei suoi pazienti, con la promessa di renderli per sempre uguali e felici.

Il diario di Anna Coleman Ladd svela ai protagonisti un modo di esistere del tutto opposto, teso a preservare la diversità e la bellezza, l’autenticità e la speranza, il dolore e la pietà: «Noi qui ricostruiamo volti, tessiamo fili di rame e di compassione, con le dita affusolate prepariamo maschere e volti nuovi. E abbiamo un sorriso per ogni dolore». L’arte scultorea di Anna Coleman Ladd, come quella narrativa, diventa uno strumento etico e politico, di carità e rivolta.

Le micro-storie di ogni paziente, raccolte nelle schede presenti nel diario, come in una sorta di Antologia di Spoon River restituiscono frammenti di vita, di dolore, di rovina, ma anche di resistenza, di forza e di compassione. Inserite nella cornice più ampia della storia dei protagonisti, esse mettono in scena il problema atavico dell’origine del male e della risposta che ognuno con la propria libertà può opporre ad esso, rinnegandolo o accogliendolo, facendone un’opportunità di vita o di morte. Attraverso questi spiragli di altro, di un tempo passato e conosciuto dai posteri solo a frammenti, Rove e Jolie trovano la consapevolezza e il coraggio della ribellione. Fino all’estremo sacrificio.

Michele Caccamo tesse con estrema abilità le trame di un romanzo geniale, dallo stile avvolgente e poetico, costruendo brevi capitoli che avvincono il lettore e lo costringono a fermarsi e riflettere su molti problemi, etici e politici, del presente: innanzitutto, la tendenza contemporanea, enfatizzata anche dai social network, alla costruzione di un Pensiero Unico che in modo subdolo, anche grazie all’immissione in rete di fake news e dati irreali, condiziona e dirige le menti e le coscienze, anestetizzandole e piegandole ad un’inconscia e cieca obbedienza; in secondo luogo, il tema, già pirandelliano, ma tanto più attuale nella società dei selfie e della iper-esposizione mediatica, della dialettica volto-maschera, essenza-apparenza.

Non ultima, in questo romanzo emerge forte la rivendicazione della possibilità dell’individuo di elevarsi al di là delle meschinità quotidiane attraverso uno sguardo alto, nutrito di sentimenti e desideri, compreso quello del divino, che sfuggano all’asfittica ragione pratica e utilitaristica che permea il nostro tempo, svilendo l’anima e il pensiero. Emerge forte la necessità di riscoprirsi umani: «Dobbiamo rifiutare gli egoismi, siamo parte di un meccanismo di energia complessa. Dobbiamo fare in modo che si levi un coro virtuoso, di grazia e di amore, di gentilezza e di acqua e di fuoco».

Maria Consiglia Alvino