L’amore della mia vita vive nel mio passato. Anche se è molto musicale, è una frase terribile da dover scrivere. Non voglio giungere alla conclusione, come l’albergo in cui soggiorno e il continente da cui esso prende il nome, che i giorni migliori sono ormai alle mie spalle e che dal futuro non posso aspettarmi altro che campare del mio passato.”

Questa frase anticipa molti dei temi che l’autore sviluppa nel romanzo, primo tra tutti il rapporto con la storia e la memoria.

Il protagonista, alter ego di Ilja Leonard Pfeijffer, prende alloggio al Grand Hotel Europa, maestoso e decadente relitto di un’epoca passata elegantemente arenato in un luogo imprecisato della Mitteleuropa. Qui Ilja cerca di mettere in ordine i suoi ricordi, dare un senso alla chiusura della relazione sentimentale con la sua amata Clio e liberarsi della catatonia in cui è sprofondato.

Nella sua stanza al Grand Hotel Europa, che è un crogiolo di stili e oggetti dimenticati dal tempo, la storia regna sovrana. Il protagonista rimane in sospesa attesa, in quel lusso slabbrato e gloria scricchiolante  che è simbolo del continente stesso dal quale l’hotel prende il nome.

I protagonisti di un tempo se ne sono andati.

È dell’Europa che sta parlando Pfeijffer quando descrive questa stanza e questo palazzo in declino, è al suo essersi ancorata alle vestigia del proprio passato che l’autore fa riferimento. Nessun altro continente è ricco di storia e di arte a tal punto e in nessun altro la necessità di mantenere vivo il passato diventa prigione come qui: vivere, lavorare, produrre circondati da un simile patrimonio artistico e culturale – sembra dirci Pfeijffer –  porta con sé il dubbio che i tempi migliori della nostra storia siano irrimediabilmente trascorsi, che la loro ingombrante eredità renda impossibile lo sviluppo di un qualsiasi futuro.

L’Europa appare come un museo a cielo aperto, le città d’arte un artefatto sotto teca di vetro a uso e consumo esclusivo dei turisti.

È Venezia che l’autore chiama a rappresentare questo scollamento dalla realtà vissuta: Venezia che sprofonda sotto i piedi delle masse di turisti che la percorrono ogni giorno mentre i suoi abitanti si riducono a un esiguo numero di multiproprietari di B&b. Venezia che contava 199.000 abitanti nel 1422 -snocciola i dati Pfeijffer – e che ha visto rapprendersi a un quinto di quel totale il numero di persone che la vivono quotidianamente agli inizi degli anni 2000.

Le previsioni vedono il raggiungimento dello zero per il 2030, ci informa l’autore. Una città morta.  Un palcoscenico adatto a mettere in scena una realtà che non esiste più.

Profeticamente, è Venezia la città che Pfeijffer sceglie per presentarci la sua relazione con Clio, storica d’arte schiacciata dal peso di un cognome nobiliare e dalla stagnante immobilità e ipocrisia della gestione dei beni culturali italiani. Ilja e Clio sono il perno del movimento esterno della storia, un palpito di vita fremente alla ricerca dell’ultimo quadro dipinto dal Caravaggio, una Maria Maddalena in penitenza. Un gioco, questa ricerca, inventato seguendo un’intuizione di lei, che è forse l’unico modo che i protagonisti hanno per riappropiarsi del passato e smettere di subirlo.

Le scelte di montaggio di Pfeijffer risultano magistrali nella narrazione a capitoli alternati, le scene piene di movimento e ritmo che seguono le vicende dei due protagonisti nella loro ricerca fanno risaltare per contrasto l’arrocco immobile e anacronistico del Grand Hotel Europa.

Ora proprietà di investitori cinesi, l’hotel si disfa lentamente sotto ai colpi degli interventi di riammodernamento, soccombendo alla rappresentazione dell’ “esperienza europea” promessa al nuovo pubblico di turisti asiatici.

Il passato diventa farsa, la citazione caricatura. Il centenario lampadario di cristallo di Boemia viene sostituito con uno nuovissimo di Swarovski con annesso sistema di luci stroboscopiche, il quadro di Paganini dipinto dal vivo nella sala di gala è rimpiazzato da una languida stampa di Parigi, il carosello di vecchi intellettuali e romantici habitués dell’hotel viene scombinato dall’invasione di chiassose famiglie americane e turisti cinesi.

E mentre Ilja, da perfetto europeo, rovista nostalgicamente nel suo passato, per chi in Europa arriva in fuga il passato è un luogo da dimenticare in fretta.

È il caso del facchino Abdul, per il quale il futuro è la sola realtà abitabile, un luogo aperto dove ancora esiste la possibilità di operare un cambiamento.

Le sigarette sulla scalinata d’ingresso tra Ilja e Abdul, il racconto che questi fa al protagonista della sua storia di migrante, della distruzione del suo villaggio e della fuga per mare sono tra i momenti più toccanti del romanzo.

“Scriverà  anche questa parte?”.
“Hai qualcosa in contrario?”.
“No. Forse mi fa piacere. Se lei scrive la mia storia, io potrò dimenticarla”.

Con lo stile ironico e manieristico che gli appartiene, Ilja Leonard Pfeijffer torna quindi sui temi affrontati in La superba, gli stessi che gli hanno fruttato diversi premi, tra i quali il Libris Literatuur Prijs, il Quinquennale della Reale Accademia delle Lettere Neerlandesi e la finale dello Strega europeo 2019.

Ne viene fuori una critica senza appello dell’immobilità nella quale langue il vecchio continente e, al contempo, l’amore per la memoria – personale e storica – e il senso di profonda appartenenza dell’autore all’identità europea.

“Le storie devono essere narrate.

Perché le storie danno un senso agli avvenimenti e perché in assenza di senso tutto diviene inutile. […] E se si volesse definire la cultura, sarebbe questo: una memoria collettiva di tutte le storie che definiscono chi siamo e ciò che significa per noi essere degli esseri umani.”

Anja Widmann

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