La libertà che ci era stata tolta
l’abbiamo ripresa , volante come poiana
nella spinta dell’ardimento
perché mai si dovrà morire
per amare

Il poemetto Il diario segreto di Giulietta di Emanuela Sica si configura come un’opera di notevole interesse letterario. La traduzione in lingua inglese, a cura di Antonella Anzalone, conferisce ulteriore preziosità a un’opera molto complessa, per temi, stile, piani di lettura.

L’autrice riesce felicemente in un’operazione non semplice: innestarsi in modo insieme rispettoso e innovativo nel solco di una lunga tradizione letteraria che ha origine nell’antichità e vede in Shakespeare solo il suo punto d’arrivo. Perché la storia dei due amanti infelici appartenenti a due casate nemiche è lunga e variegata: alcuni esempi possono essere rintracciati nella storia di Piramo e Tisbe narrata da Ovidio nelle Metamorfosi (IV 55-166), nonché nei Babyloniaka di Giamblico e negli Ephesiaka di Senofonte Efesio. A questo topos, la storia arrivata a Shakespeare ne aggiungeva un altro, anch’esso veicolato da lunga tradizione: la morte apparente e temporanea del personaggio, documentato anche in storie del folklore popolare quali Biancaneve e La bella addormentata nel bosco. Tale mitologema, ben analizzato da Vladimir Jakovlevič Propp (cf. “La morte temporanea”, in Le radici storiche dei racconti di fate, Torino, Bollati Boringhieri, 2012) quale simbolo del passaggio iniziatico da adolescenza a maturità, conduce di solito alla salvazione del personaggio tramite un personaggio, il principe azzurro, allegoria dell’amore che ha la meglio sulla Morte. E versioni “a lieto fine” esistono anche nella tradizione dei due amanti veneti, come nella novella XLI di Matteo Maria Bandello (1554) intitolata: Uno di nascosto piglia l’innamorata per moglie e va a Barutti [Beirut]. Il padre de la giovane la vuol maritare: ella di dolore svenisce e per morta è seppellita. Quel dì medesimo ritorna il vero marito e la cava da la sepoltura e s’accorge che non è morta, onde la cura e poi le nozze solenni celebra.

Emanuela Sica si colloca in questa scia, immaginando un altro e più felice esito della storia: Romeo riunisce in sé sia le prerogative di Orfeo, capace di scendere nell’aldilà e carpirne i misteri, sia di un principe azzurro. E Giulietta è l’amante-amata capace, con intelletto e volontà, di avere la meglio sui limiti impostile da società umana da un lato e destino dall’altro.

Il ribaltamento della narrazione shakespeariana non è dettata solo dal bisogno di riscrivere la storia cercando un happy ending; si poggia, a ben vedere, su due presupposti filosofici: l’idea che l’uomo non sia un burattino nelle mani di una Divinità cieca, ma che possa opporre ad essa il suo libero arbitrio (“nulla si fermerà se si vuol amare” (p. 27); “Crudele quel Dio che non protegge il vero amore / dalle storture del fato / che mette in scena tragedie già scritte / e noi burattini nella morsa del conosciuto ignoto”, p. 30); la convinzione di ascendenza virgiliana che Amor vincit omnia, peraltro dichiarata nella citazione di Emily Dickinson in apertura dell’opera: “Incapaci sono gli Amati di morire/perché l’Amore è Immortalità, / anzi, è Deità -, incapaci coloro che amano – di morire / perché l’Amore trasforma la Vitalità / in Divinità”). Emanuela Sica ci pone, pertanto, di fronte alla forza dirompente dell’amore, che è tale solo se salva. L’amore, inteso qui sia come eros, sia come philia, diviene uno strumento ermeneutico che permette al personaggio – e dunque alla voce autoriale che lo sottintende – di conoscere e rappresentare la realtà, fino allo stravolgimento del destino a cui pare ineluttabilmente sottoposto.

Ma non è il lieto fine l’unico elemento originale della narrazione di Emanuela Sica. Altro aspetto di notevole interesse è la possibilità di leggere l’opera anche secondo un piano allegorico-metafisico. Giulietta dichiara sin dall’inizio il suo legame quasi ipostatico con Giulia, la santa cristiana da cui ebbe il nome, affermando una corrispondenza tra il suo amore e quello della martire per Cristo: “Giulia amava Cristo. Io amo l’amore” (pp. 19-2). Ciò induce a ricercare e riconoscere, al di sotto della movimentata storia dei due veronesi, un’altra storia, non meno intrigante e tortuosa: quella dell’Anima verso lo Sposo. Lo stratagemma di narrare l’unione mistica tra l’anima e Dio tramite il ricorso alla metafora dei due amanti che si cercano, si trovano, si perdono, si ritrovano ha, del resto, nobili ascendenze: la storia di Eros e Psiche tramandata nelle Metamorfosi di Apuleio, ma soprattutto il Cantico dei Cantici, abbondantemente ripreso secondo tale prospettiva nei commenti antichi, a partire da Origene, e nella mistica medievale. Come nel Cantico, anche nel poemetto di Emanuela Sica ricorrono metafore di forte pregnanza simbolica: l’amato preannunciato dal profumo (“Di quel delicato fiore / che il suo bocciolo poggia sul balcone / come il volto di una donna innamorata / lo sguardo rivolto al suo amato / ho sentito il profumo”, p.17), l’analogia tra eros e fuoco, la vigna quale metafora di unione feconda.

L’autrice disegna i diversi movimenti dell’anima nell’incontro con lo Sposo: il desiderio erotico che nasce dalla visione (“dicono che il cuore lo veda prima di tutti / prima che la mente lo riconosca / basta soltanto una carezza degli occhi / anche brevemente posati / sul volto di chi ami / e che sai amerai per sempre”, p. 21) – tema peraltro già ampiamente presente nella tradizione poetica italiana a partire dallo Stilnovismo; l’amore, consumato e appagato anche nella sua componente fisico-sensoriale, che diventa strumento di conoscenza e riconoscimento del sé, attraverso l’incontro con l’Amato; l’allontanamento dell’Anima dello Sposo, causato in questo caso dall’imposizione di un altro pretendente, Paride, prefigurazione della Morte; lo stadio della morte apparente, dell’oscurità infera nella quale, tuttavia, l’amore riesce a penetrare; la salvazione finale.

La pregnanza e la complessità, filosofica e letteraria, dei temi affrontati in questo pur breve poemetto, è resa attraverso uno stile che ha nelle figure dell’antitesi – su tutte l’ossimoro – e in quelle atte a stimolare i sensi – in particolare la sinestesia, usata con scaltrita perizia – i suoi punti nevralgici. La lingua è tessuta intorno a trame di pura musicalità che facilitano, al pari dello stratagemma del diario, il legame empatico tra il lettore e il personaggio. O forse tra lettore e autrice?

Maria Consiglia Alvino