Nella vita di tutti esistono date ben precise o periodi di tempo circostanziati in cui ogni evento sembra accadere in risposta ad un altro fornendoci così un quadro chiarificatore del nostro momento di vita. Lo stesso accade a Rusty, il dodicenne protagonista de Il racconto del barista, scritto nel 2012 dal narratore americano Ivan Doig, edizione italiana a cura di Nutrimenti.

Per il giovane Rusty, voce narrante di tutto il romanzo, ogni cosa sembra concentrarsi in quella calda estate “fuori dal comune” del 1960 che segna il passaggio dagli undici ai dodici anni traghettandolo, senza deroghe, in piena adolescenza.

Un momento, all’interno della sua vita, così descritto:

“La vita in quel momento ci sembrava perfetta, l’aria di mezza estate vibrava come di un gas esilarante” e ancora “ero consapevole, anche allora, che quella fosse un’estate che, come gli inverni trentennali, sarebbe stata successivamente presa come pietra di paragone? Sono certo di sì.”

Protagonisti assoluti della narrazione sono Rusty e suo padre Tom Harry, “il miglior barista mai esistito”, a detta del figlio e non solo, proprietario di un bar molto conosciuto che si chiama Medicine Lodge a Gros Ventre, località di fantasia del Montana. I due si ritrovano a rivestire e vivere in modo permanente i ruoli di padre e figlio dopo sei anni dalla nascita di Rusty: l’abbandono repentino della madre di quest’ultimo quando era un neonato, aveva costretto Tom ad affidarlo alle cure di sua sorella Margie in Arizona. Al compimento dei sei anni di età di Rusty però il padre decide di prendersene cura, si materializza un giorno a casa della zia e “da quel momento” la vita del bambino “smise di essere schifosa”.

Da questo esatto istante ha inizio una storia umana, scritta con lentezza e una precisione stilistica ineccepibile, che ha l’incedere di una “marcia, dolce e maestosa” come suggerisce saggiamente, il traduttore italiano dell’opera Nicola Manuppelli nella sua chiosa finale al romanzo. La lettura di queste ultime pagine in appendice alla storia si rivela utile oltre che piacevole e prolunga il momento amaro del distacco da quell’universo incredibile, creato da Ivan Doig, fatto della bellezza di una natura vasta e incontaminata oltre che di uomini e donne tanto finemente caratterizzati quanto universali.

La storia di Tom Harry e di Rusty non è solo il racconto di un padre, barista del Montana, e di un figlio insicuro in seguito all’abbandono materno nella sua prima fase di vita, che imparano a conoscersi e a vivere all’interno di quei ruoli ma è, allo stesso tempo, la storia di tutti i padri che vivono, sbagliano e, accogliendo i propri errori, cercano il perdono dei figli. È ancora la storia di tutti quei figli che, come unico viatico alla crescita e alla maturazione, hanno l’abbandono dell’idealizzazione dei padri a favore dell’accettazione di questi ultimi e delle loro imperfezioni.

Sin dalle prime pagine si respira un’atmosfera fatta di realtà. C’è un uomo, il suo bar, la sua assunzione di responsabilità nei confronti di un figlio finora tenuto lontano, la sua casa adiacente al bar e la sua auto, silenziosa complice di un passato difficile da dimenticare. Ma poi c’è uno scambio di battute tra Tom Harry e i figlio nella scena appena antecedente il loro arrivo definitivo a casa che, a mio avviso, segna l’entrata in scena di una seconda istanza a cui questa realtà si mescola in modo inequivocabile lungo tutto il romanzo:

“Saremo solo io e te? A…”, non sapevo che altra parola usare, “…casa?”.

Non disse nulla finché non ebbe finito la sigaretta e l’ebbe appoggiata sul posacenere. “Io e te siamo più che sufficienti, ragazzino. Ora chiudiamo gli occhi”.

Ecco questo “ora chiudiamo gli occhi” apre la via ad una finzione, una sorta di realtà onirica parallela, che si declinerà nei modi più fantasiosi e darà colore e sostanza alle vite dei protagonisti. Rusty, come tutti i ragazzini della sua età, è dotato di una nitida fantasia e, complici il retrobottega del bar dove lui trascorrerà gran parte dei suoi pomeriggi dopo la scuola che è ricolmo dei più svariati oggetti dati in pegno al padre dai clienti impossibilitati a pagare in denaro e un condotto di ventilazione da cui può spiare i discorsi del mondo adulto, avrà l’occasione di chiudere gli occhi e crearsi il suo mondo fantastico. Corresponsabile di tale universo che cresce e si evolve in Rusty con la foga di una musica incalzante è la sua nuova amica Zoe, sua coetanea figlia di una coppia di gestori di una tavola calda nei pressi del Medicine Lodge, che irrompe teatralmente nella sua vita in piena costruzione:

“Stai per avere compagnia”. E lui “Attesi con l’agitazione di quando qualcuno proveniente da un copione totalmente diverso entra a far parte della sceneggiatura della tua vita. Sarebbe stato difficile andarci d’accordo? Ci sarei riuscito?”

Con furia vivace e travolgente in questa estate del 1960 il femminile fa irruzione nella vita del giovane Rusty accompagnandolo in modo indelebile in molte delle vicende che verranno. La danza tra realtà e finzione pian piano si amplifica dando spazio all’entrata di nuovi bizzarri personaggi del presente e del passato paterno, di accadimenti indimenticabili, passioni in erba che segneranno le strade dei due adolescenti, viaggi chiarificatori, intenzioni guidate da verità prima immaginate e poi stravolte. A proposito di verità, Rusty, che ci accompagna lungo tutta la lettura con uno sguardo ingenuo e disincantato, sarà obbligato a fare i conti con ambiguità e segreti riguardanti la vita del padre e proprio questa sua attitudine a fare chiarezza fungerà da motore propulsivo per l’intera trama narrativa. In tal modo la lettura prende aria man mano che le pagine si susseguono e la storia, passo dopo passo, semplicemente accade.

Da lettrice donna non posso esimermi dal sottolineare quanto all’interno di un mondo maschile come quello del bar, di Tom e Rusty, l’irruzione dell’elemento femminile (Zoe per prima ma anche Mrs. Reinking con la sua proposta di iniziazione al teatro, Proxy, la taxy dancer dal passato nebuloso e sua figlia Francine) diventi, a livelli diversi, promotore di una vera e propria rivoluzione, una sorta d’inondazione che porta a galla detriti sepolti dal passato e ridisegna i contorni di ogni cosa regalando alla realtà iniziale significati e connotati del tutto nuovi.

La scrittura di Ivan Doig è assolutamente magistrale in quanto le sue frasi non hanno nulla di improvvisato o casuale e ogni parola, scelta con minuzia e sapienza, funge da detonatore potente di sensazioni e immagini. La lentezza descrittiva, che solo in apparenza pervade la storia, non è fastidiosa e tantomeno eccessiva ma funzionale agli accadimenti che non cessano di stupire fino all’ultima pagina.

In conclusione, definirei questo romanzo un condensato di densità e delicatezza, un misto di finzione e realtà che avvince e commuove, una magia in divenire che intreccia presente e passato, maschile e femminile nel Montana degli anni sessanta. Leggere Il racconto del barista di Ivan Doig è stata un’esperienza semplice, bella e positiva proprio come lo è la vita, sempre, anche quando spariglia le carte e ci richiede di vestire abiti diversi per recitare in nuove scene.

Ombretta Brondino

Per scoprire a cosa si sta lavorando nella casa editrice Nutrimenti, qui c’è l’intervista.