Come scegli i libri?

Scelgo i libri un po’ per caso e un po’ perché mi vengono messi in mano dagli amici.

E Soriano, come l’hai scoperto?

Credo che Soriano appartenga alla Famiglia Del Caso. Mi ricordo di aver letto Triste Solitario y Final e di non averlo finito perché non mi piaceva. Alcuni lo considerano il suo capolavoro, non capisco perché. Poi qualcuno deve avermi messo in mano Quartieri d’Invemo. Erano tre o quattro anni prima che morisse.

Per il suo modo di scrivere, perché parla anche di pugilato, sei stato influenzato da lui mentre scrivevi City?

Non mi ha influenzato per City, ogni tanto scrivevo e pensavo: «Ohoh. Non sarà mica troppo Sorianesco?»

La lezione dei grandi maestri è che bisogna superare quello che uno ha fatto.

Quando pensi a Soriano lo associ a qualcosa, chessò, al fatto che scrivesse di calcio o a qualcos’altro?  

Questo sì. Con il calcio mi viene in mente lui, sarà per il fatto di Totem visto che abbiamo scelto un racconto che parla di quello. Indubbiamente per il calcio sì. Ripensandoci, ogni tanto mi veniva da scrivere cose che rileggendo sembravano sudamericane. Mi piace il loro senso della mitologia, la loro esagerata capacità di elevare a mito l’ingresso di una donna in un bar, il modo in cui si alza la gonna mentre si siede, e così analogamente il fallo fischiato da un arbitro. Hanno la capacità trasformare atteggiamenti e situazioni “normali” in leggenda. Anche in City c’è questa cosa.

Perché avete scelto proprio quel racconto per Totem?

In Totem si fanno cose molto pesanti. Cercavamo un finale per lo spettacolo che rompesse un po’ quest’aria difficile, qualcosa per cui la gente potesse ridere insieme a noi, per divertirci un po’. Quel racconto oltre ad essere divertente, è lungo giusto. È un racconto molto ben scritto e funziona bene…

… e poi ha la faccia di Allegri.

Già, e poi ha la faccia di Allegri!

È abbastanza facile da leggere e se vogliamo è un bell’esempio di quello che era capace di fare lui e in generale dell’atteggiamento dei sudamericani. Non è un capolavoro, è un bel racconto, tutto qui.

Che cosa pensi del rapporto tre esilio e scrittura?

C’è ma in un modo che secondo me non è particolarmente significativo. La scrittura di ognuno di noi contiene le nostre vicissitudini biografiche. Più la scrittura che le storie che raccontiamo. Immagino che l’esilio sia, nella vita di una persona, una cosa enorme. Sono sicuro che per coloro che l’hanno provato ha rappresentato un marchio che si portano dietro anche nella loro scrittura. Moltissimi personaggi di Soriano vivono in un mondo che non è nemmeno un mondo di esilio, è un Non Dove. Forse la sensazione è accentuata per noi che non conosciamo molti posti di cui lui parla, e così sono sempre Non Posti. L’idea che ho leggendo Soriano e pensando ai suoi personaggi è sempre quella di vedere gente che attraversa mondi non ben definiti, come se andassero avanti e indietro come un pendolo, senza una meta, in un luogo che potrebbe essere il loro, ma chi lo sa? Mi sembrano una gran folla di esiliati, esiliati da se stessi, dal proprio destino. Viaggiano ma senza un nord, un sud, un prima, un dopo. Anche nel racconto che abbiamo scelto per Totem, questi posti dove vanno a giocare, non li conosciamo ma qualcosa ci figuriamo. Non lo so se ci fosse una relazione tra questo e il fatto che lui se ne sia andato dal suo paese. Certo Marlowe, anche lui, è un uomo senza patria che vive in una città che non è la sua e non la ama. Questi personaggi forse hanno bisogno di un ecosistema in cui vivere, ma che non è la loro patria.

A proposito di Marlowe, del far rivivere personaggi inventati o star del cinema, è una cosa che faresti o hai fatto anche tu?

È la cosa che mi interessa meno di Soriano, però vedo che piace molto. È un po’ forzata, credo. Non ho mai fatto rivivere nessuno, tranne Horeau. Ne ho preso solo uno spunto e come omaggio gli ho conservato il nome. Ho avuto la tentazione di scrivere un racconto su Sherlock Holmes. Magari prima o poi lo farò, però direi che è l’unico personaggio che mi piacerebbe far rivivere letteralmente: con Watson, la sua casa, la sua pipa e tutto il resto.

Sei mai stato in Argentina?

No. Buenos Aires me la immagino come un posto vagamente europeo dove si aggirano personaggi con destini memorabili, dove ogni angolo di muro è qualcosa di solenne. Il resto dell’Argentina me la immagino come la descrive Soriano, dove passano circhi, donne bellissime e polli lungo strade polverose. Ma non ci vado perché so che non sarà così.

Quale parola associ a Soriano?

Mah. Non parole. Ho in testa degli odori, ho in testa benissimo un certo senso di sporcizia che c’è sui vestiti dei personaggi di Soriano. Una specie di sporcizia diffusa e triste ma solenne che c’è nei suoi personaggi. Più che parole direi sensazioni.

Cosa gli avresti chiesto se lo avessi incontrato? E dove l’avresti portato?

Penso che avremmo parlato di calcio tutto il tempo. Perché se uno lo ha giocato e lo ama così tanto come me sarei stato lì ad ascoltare solo storie di calcio, magari qualche storia d’amore.

Con gli scrittori ho questo istinto: li evito, giro largo, mi piace parlare di altro con loro. Con lui penso che sarebbe stato semplice perché non me lo hanno raccontato come uno trapanato dei suoi libri e del suo lavoro. Dove l’avrei portato? Lui stava a Parigi e anch’io ci vado spesso. C’è un posto dove fanno cucina antillana: un pollo clamoroso e pesantissimo. Ci sono solo Africani. Avrei invitato Eugenio Allegri che porta sempre un pallone nel baule della macchina. Avremo fatto l’una di notte e a quel punto lui avrebbe tirato fuori il pallone dalla macchina e avremo giocato a calcio in una di queste piazzette parigine.

Lì avrei finalmente visto come Soriano stappava di petto.

Hai letto altri scrittori sudamericani?

Sepúlveda. Ma Soriano è molto più interessante. Soriano è uno dei riferimenti giusti per il nostro tempo, pur nell’ambito della narrativa senza enormi ambizioni. Quello che mi colpisce di lui è una certa scelta di intensità della narrazione. Lui, come Pennac, realizza un’idea di intensità diversa da quella che noi troviamo nella Civiltà del libro. Mentre leggi Soriano è difficile che passino quindici righe senza che ci sia qualcosa che ti colpisce, che è stato scritto per essere un microshock. È uno che crede che a intervalli molto stretti la scrittura debba contenere dei sobbalzi di emozione che sia humour, tragedia o poesia. Per cui quasi sempre c’è l’ambizione di tenerti costantemente sotto pressione. Questo non c’è in un libro di Kafka e neanche in un libro di Delillo. In generale: Uno scende da una corriera e deve dire una cosa memorabile, va in un bar e dice una cosa memorabile, va nel cesso e c’è una foto e lui te la descrive in quattro parole e- zac- quella foto nel cesso ti rimane impigliata nella ragnatela della memoria. La storia va avanti, il libro accade in due o tre battute e la quarta lui usa un qualche trucco linguistico che ti colpisce. È un modo adrenalinico che ha di dopare la scrittura, lo stesso che c’è anche in Pennac e che uso anch’io, è un’idea particolare di spettacolarità del libro. Di solito la Civiltà del Libro è legata a un’idea di spettacolarità piuttosto bassa. Una delle forze della Civiltà del Libro è di mantenere un passo lento, un’intensità allargata nello spazio invece che concentrata in una serie di punti molto vicini tra di loro. Allora questi qui, Soriano, Pennac e me, che non siamo grandi scrittori, abbiamo provato a fare una cosa diversa. Se tra quarant’anni si capisce ancora allora ha funzionato. Voglio dire: in un poliziesco sei costantemente adrenalinico, ma è una cosa riconosciuta, che fa parte di un genere preciso, quello di Serie B.

Non è un caso che Soriano si rifaccia a Chandler. In Chandler, a un certo punto, la trama è talmente confusa che sapere chi è il colpevole non ti interessa più. Ma c’è una cosa che ti tiene incollato e ti fa veramente godere: leggere i dialoghi, le battute. Lui cambiava la trama mille volte. È una forma di doping che c’è anche in Soriano: i dialoghi sono bellissimi. Per me sono stati una lezione, ma è figlio di una certa idea e ambizione. A Proust non interessava fare quei dialoghi lì. Soriano, anche se solo fa dire a un suo personaggio: «Passami il sale», glielo fa dire in un modo particolare. I dialoghi di Calvino non sono così. Lì dietro c’è un’idea diversa della Civiltà del Libro. In Soriano c’è il tentativo di andare da un’altra parte.

Soriano racconta altri mondi. Parla della sua terra e di personaggi esiliati. Pennac racconta storie di oggi abitate da personaggi assurdi ma riconoscibili in una certa Parigi. Poi ci sei tu. Non ti si può identificare con un posto geografico preciso. C’è ancora un altro salto rispetto a loro.

Sì, loro sono più legati a una cosa particolare: a un mondo riconoscibile. Hanno identificato il loro mondo. Soriano è il mondo dei sudamericani esuli dalla propria patria, personaggi e immagini esiliate da menti reali. Pennac ha trovato nella Francia non francese il paesaggio in cui si riconosce. Evidentemente io non ho trovato niente del genere e quindi me lo sono costruito. Colleziono mondi immaginari. Si direbbe che la mia patria è ancora più evanescente della loro. Loro hanno un appoggio preciso e sono andati lì a mettere le loro storie e invece io non avevo niente a cui appoggiarmi. Forse il mio mondo non viene da realtà vissute. C’erano tre ragazzini: uno aveva il calcio, l’altro aveva un cortile pieno di amici di ogni razza e il terzo se ne stava seduto a leggere libri. Io me ne stavo seduto a leggere i libri.

 

Torino. Corso Dante, 118. Scuola Holden.
Ore: 16,40. Martedì ventotto settembre millenovecentonovantanove.
Intervista ad Alessandro Baricco a cura di Sara Beltrame e Lea M. Iandiorio