È complicato attraversare spazi letterari per dare loro un nome preciso e rassicurante, saperne riconoscere la fibra muscolare, delinearla, catalogarla con l’idea di un’anatomia della letteratura di fantascienza. Complicato, sì.
Come un corpo, si potrebbe osservare questo genere un pezzo alla volta, studiarne e approfondirne la natura fino all’osso. Si scoprirebbero così strutture vive e interessanti che necessitano uno sguardo più attento, in modo da distinguere voci narranti per nulla scontate. In Italia, abbiamo la fortuna di poter leggere diverse autrici di fantascienza.
Tra queste, Nicoletta Vallorani di sicuro è quella più energica e forte, capace di crescere nella mente del lettore. La si può scoprire in tanti suoi romanzi, alcuni dei quali vincitori di premi importanti (Il cuore finto di DR – Premio Urania 1993, La fidanzata di Zorro – Premio Zanclea nel 1996, Le madri cattive – Premio Maria Teresa Di Lascia nel 2012; Avrai i miei occhi – selezione Campiello 2020). Con Noi siamo campo di battaglia, per la casa editrice Zona42, la troviamo alle prese con il suo ultimo romanzo, edito a giugno del 2022.
Noi siamo campo di battaglia è una storia che accende l’attenzione su temi importanti ed attuali. Si parla di tante cose tra le pagine del libro: disagi, ribellione, malattia, scontro generazionale, futuro… I ragazzi protagonisti sono creature invisibili per gli altri, eppure con resilienza coltivano un giardino impossibile e per questo prezioso. Su tutti la voce di Carla, la Prof, diventa il collante del piccolo “Vivaio”. C’è una frase di lei, a proposito del ruolo di professore, che dice essere: “il mestiere della linea di confine”. In questa linea di confine non lavora forse anche uno scrittore?
Dipende dallo scrittore (o dalla scrittrice, nel mio caso) che si vuole essere. A rigore, si è nel ruolo di farsi ascoltare, esattamente come accade a un insegnante. Da questa posizione di privilegio istituzionalizzato, si possono dire cose significative oppure corteggiare il mercato. Le due opzioni spesso sono tragicamente divaricate, e, sempre tragicamente, in moltissim* scelgono la seconda via. Io non lo faccio. Non c’è mai stata scelta per me, per un motivo elementare: non mi penso da sola, ma come un pezzettino della comunità. In questa comunità ho un ruolo, che è quello di dire quel che alla comunità può servire, sebbene sia fastidioso. Dunque sì, come scrittrice, credo di poter funzionare da linea di confine. Ma è una scelta, lo ripeto: si può anche scegliere di fare l’addobbo ornamentale nella piazza principale della polis.
Lukas, Amina, Luce, Attilio, Nina Han e naturalmente Biz, sono i ragazzi che si aggirano come pezzi di un puzzle per le strade di Milano e Milano è ancora una volta lo scenario perfetto dove ambientare le sue storie. È come se il lettore indossasse i suoi occhi per muoversi fisicamente in una città reale e immaginaria allo stesso tempo. Se la società di oggi si specchiasse attraverso le sue parole, come e cosa vedrebbe?
Nessuno di noi si muove solo nella città che vede, ma sempre e comunque anche in quella che immagina. L’immaginazione degli scrittori è solo più orientata verso una dimensione pubblica. “Noi inventiamo storie”, come dice Le Guin, per neutralizzare l’idea che noi si sia profeti o indovini. E nelle mie storie fin qui c’è sempre stata solo una Milano dissipata, fatta di confini, con sacche di resistenza destinate a essere cancellate. In questo romanzo forse per la prima volta c’è una speranza, e questa speranza risiede nell’azione giovane e collettiva. In questo “noi” che diventa città. Ecco, sì, mi pacerebbe che chi legge “Noi siamo campo di battaglia” vedesse questo.
Vita vera e vita raccontata, oltre a essere scrittrice e fare un mucchio di altre cose lei è un’insegnante, questa esperienza le ha fornito un punto di vista privilegiato sui giovani. Quanto è necessaria la loro ribellione per costruire il loro futuro, il “Compost”, come lo chiama nel libro?
È l’unica possibilità di salvezza. Non è la mia generazione che costruirà il futuro, tanto meno quella che è arrivata prima di me. Per questo mi manda in bestia che ci si accanisca contro le ribellioni dei ragazzi. Che poi ragazzi non sono più. Imbrigliati nella cancellazione della speranza, stanno cercando di recuperare una voce. E quando si fa questo, magari si sbaglia. Ma noi sessantenni abbiamo sbagliato per primi. Sarebbe anche ora che lo riconoscessimo. Lasciamo che facciano, e, per una volta, torniamo nelle retrovie, e sosteniamoli da lì.
L’elemento distopico è un filtro attraverso il quale lei racconta il mondo attorno a noi. Ma è un mondo che sta uscendo dalla pandemia e che si è gettato nella guerra. Difficile averci a che fare. C’è più distopia nella realtà o nei mondi narrativi di Nicoletta Vallorani?
In effetti, tragicamente, raccontare una distopia è raccontare l’oggi: siamo realisti di una realtà più alta, diceva Le Guin già qualche anno fa. E siamo i canarini nella miniera di carbone, ripeteva Vonnegut. Noi cantiamo per avvisare quelli che restano che dalla miniera occorre uscire, perché da tempo si è fatta pericolosa. E uscire si può, ma solo scegliendo strade inedite. Quelle usuali sono chiuse, e non hanno portato da nessuna parte. È tempo di prenderne atto.
Nella letteratura il femminismo e l’ecologismo hanno spinto a immaginare società utopiche. U. K. Le Guin in “The Dispossed: an Ambiguous Utopia”, ad esempio, descrive una società collettivista e anarchica contrapposta al sistema capitalista. Ci sono società folli, come quella della Atwood e molte altre ancora. Nel suo lavoro questa componente quanto è importante?
Le Guin mi ha insegnato il dubbio e la consapevolezza che non esiste una società perfetta, ma gli errori sono compost, appunto: aiutano a cambiare, se riconosciuti. Da lì, dal compost, cresce qualcosa, se non asfaltiamo la terra. Altrimenti siamo perduti. Atwood racconta i molti modi in cui possiamo essere perduti. La distopia è un modello paradigmatico dell’errore, che dovrebbe servire a evitare di replicarlo. A guardare il mondo, non si direbbe che abbiamo imparato a evitare le repliche. Nelle mobilitazioni giovanili che hanno accompagnato la guerra in Vietnam, girava uno slogan semplice ed efficace: “Bombing for peace is like fucking for virginity”. Come si fa a non vedere la contraddizione? Si era negli anni’60 del 900, e adesso siamo negli anni ’20 del 2000. E siamo ancora qui, esattamente nello stesso punto: forniamo armi per fermare una guerra. La gente che muore non torna ad abitare I territori desertificati dalle bombe. Quale sarebbe, esattamente, la speranza garantita da questo genere di ragionamento? A me sfugge. Aggiungo: sì, sono pacifista, e non venite a chiedere a me che cosa bisognerebbe fare ora per fermare questa nuova guerra. Noi pacifisti lo abbiamo detto in passato che cosa bisognava fare prima di ricorrere alla guerra. Adesso direi che è idiota e tendenzioso chiederci qual è l’antidoto. Se tua madre ti dice che mettendo il latte nel colapasta, la tua colazione finirà nel lavandino, non puoi chiedere a lei di risolvere il problema quando di latte non ne hai più: eri stato avvertito.
Essere scrittrici di fantascienza, non è fantascienza, non è un tormentone, ma un’occasione per approfondire temi e andare dentro le cose attraverso un genere ricco di sfumature. Quali sono stati i suoi riferimenti letterari?
È sempre una domanda difficilissima, per me. Ho imparato cose diverse da scrittrici (e scrittori) diversi. Le Guin è un faro, ma lo è anche Virginia Woolf, così spesso citata da Le Guin, Russ e altre ancora: le scrittrici che nessuno ha mai pensato di inserire nella Storia della letteratura. C’è tutta una tradizione carsica della fantascienza delle donne che risale fino a Mary Shelley, la ragazzina che raccoglie nel suo modo determinato e ritroso l’eredità di Mary Wollstoncraft e scrive un romanzo immortale continuando a dire che come scrittrice non è poi un gran che. E ci sono tutte le donne che hanno scritto di nascosto, senza avere soldi né tempo, tutte in cerca di una stanza tutta per sé. Con le scrittrici americane degli anni ’70, noi autrici di fantascienza penso che abbiamo avuto la prima chance di uscire da quella stanza. E penso che sia importante uscirne insieme, aggregandoci mentre raccontiamo storie con uno sguardo che è il nostro, dunque obliquo e marginale, ma utile.
Sente la complicanza dello scrivere di fantascienza in un ambito dove i colleghi uomini hanno preso a lungo troppo spazio?
No. Penso che lo spazio bisogna prenderselo. E penso anche che ormai parlare di esclusione sia pericoloso e finisca per autorizzare le donne che decidono di fare un passo indietro. Intendiamoci: purché sia una scelta, fare un passo indietro è un diritto, ma lo è anche imporsi, non perché si è donne, ma perché si conosce il mestiere, lo si è studiato, si hanno delle cose da dire e si riesce a farlo bene. Oggi, in Italia, è un momento magico per le donne che scrivono fantascienza. Se restiamo unite e non ci facciamo irretire dalle cosiddette necessità del marketing, possiamo renderlo prezioso.
Nel romanzo Avrai i miei occhi c’è un capitolo che mi ha emozionata particolarmente, il numero 13. Olivia descrive le parti del suo corpo e lo fa in modo forte. In un certo senso l’idea del corpo della donna viene fatto a pezzi, ma è un atto necessario per poterlo riscoprire a fondo, ricostruendolo. Ogni arto diviene uno strumento e un simbolo per ricordare l’essenza umana. È l’involucro della forma della memoria di ciò che siamo?
Il corpo è tutto quello che abbiamo, da donne e da uomini. Credo che sia fondamentale ricordare che, se il corpo femminile è stato mal aggregato e necessita di essere ricomposto, questo ha ricadute sul corpo maschile. Siamo fatti di pezzi, tutti, indipendentemente dal genere di appartenenza. Ogni violenza fatta a un corpo di donna richiama un carnefice che ha rinunciato a essere una persona, una creatura senziente. Vorrei che la parte maschile della comunità capisse questo: le donne muoiono, e muoiono perché alcuni uomini non sono persone. Dunque il problema della subalternità delle donne, non è un problema delle donne: è una falla importante nella comunità, il buco nero in cui si perde la civiltà.
La voce del narratore di Avrai i miei occhi è una lama, non fa sconti per il lettore. C’è un ritmo della parola che diventa a tratti lirico. Olivia e Nigredo, nonostante la fisicità dei loro corpi, sembrano ombre che si aggirano in un barlume di luce che risplende nel buio di Milano, come l’immagine del tulle, con la sua leggerezza che veste un corpo violato. Dove si può cercare una scappatoia per sopravvivere?
Nella ricostruzione di un bene comune, che lo sia davvero. È una semplice, elementare strategia di sopravvivenza, che piante e animali conoscono e praticano meglio di noi. Impariamo dagli organismi che abbiamo sempre considerato accessori: credo sia tempo di farlo.
Come un organismo complesso nella sua natura, la scrittura di Nicoletta Vallorani è una riserva di ossigeno preziosa e indispensabile, una macchina perfetta da utilizzare per due motivi: uno, arricchire il proprio bagaglio culturale e, due, allenare le proprie sensibilità. Queste, coltivarle come capacità di discernimento nella scelta di buone letture, scansando colpi di un mercato troppo spesso veloce e superficiale.
Francesca Di Martino
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