Dare delle risposte. Tracciare delle regole. Questo è il vettore che da sempre ha oliato gli ingranaggi dello stare al mondo e che si impara in famiglia, sin da piccole. Secondo assiomi e schemi che non sempre sono davvero sani, giusti, ma sono quella che conosciamo come “la buona educazione”, esattamente come il titolo: La buona educazione, romanzo di esordio di Alice Bignardi, edito da edizioni e/o nella collana Dal Mondo. Ma se tutto portasse solo conflitti e “conversazioni mute”?

Ambientato nella Roma degli anni duemila il romanzo dipana i fili di un topos narrativo affascinante e oscuro: quello tra una madre, Antonella e una figlia, Lisa, che ripercorre la loro diade tra ricordi sgualciti e consapevolezze, almeno quelle che la figlia cerca di mettere insieme, pezzo dopo pezzo.  

«Di lei e sua madre insieme ricorda vividamente solo il momento più triste della sua vita. Tutto il resto è vago. Un garbuglio di ciò che è accaduto e avrebbe voluto accadesse. Ormai non distingue più le due cose. Questa, infatti, è la storia della malattia di sua madre, non com’è avvenuta realmente, ma come la ricorda sua figlia. Sono due cose completamente diverse».

Con questa premessa l’autrice ci accompagna per la ricomposizione, capitolo dopo capitolo, inanellando aneddoti e pensieri. Oltre alla madre Lisa ha un padre, un fratello e una sorella, quattro cugine, una schiera di zii e nonni “adoranti”, ma la narrazione non sembra riguardarli, poiché il centro delle sue attenzioni e delle sue reazioni è legato a sua madre.

«Sentiva che sua madre non l’aveva soltanto messa al mondo, ma le stava insegnando come starci e le avrebbe sicuramente anche mostrato in futuro come modellarne uno tutto suo per sé e le cose che preferiva».

Da qui il nucleo dal quale parte il lungo periodo di formazione che determina in gran parte il tipo di rapporto che le due protagoniste, madre e figlia, hanno da quella sensazione in avanti.

A sedici anni Lisa ha ottimi voti a scuole, conosce benissimo le lingue, ha già viaggiato, ha già una sua educazione sessuale. Sua madre le insegna ogni cosa.

E dopo un primo sentimento di superiorità per avere una madre emancipata, intelligente, Lisa, “si sente un povero orso ammaestrato con indosso un gonnellino rosa”.

L’inadeguatezza, il diniego di certe perfezioni da raggiungere iniziano a salire come rigurgiti di coscienza sottili e fastidiosi.

Molte emozioni erano vietate o semplicemente andavano mascherate, dissimulate: per buona educazione occorreva sopprimere rabbia e aggressività, sospetto e diffidenza. 

La casa bella in un quartiere brutto come viene chiamato uno dei capitoli rappresenta la metafora del luogo che racchiude le caratteristiche di chi lo abita: in  quella casa impeccabile la madre organizza la vita sociale e gli scambi con gli altri, non smettendo di controllare Lisa nemmeno un istante, con codici di verifica. Ma quanto conta sapersi comportare secondo “la buona educazione” se non si impara ( e non si viene educati) a essere sé stessi? Autentici?

La diade inizia a entrare in un cono d’ombra denso e scuro: quello delle cose non dette, nascoste. Immolando la parte vera che poi, via via che il romanzo procede, esplode in manifestazioni di conflitto altissimo, recriminazioni pesanti. “Possibile che nessuna delle due si fosse mai resa conto di essere tanto tremenda quanto anche l’altra pensava di essere stata?”.

Il cortocircuito arriva: la madre si ammala. Dopo una vita basata sulle regole e sul tenere tutto sotto controllo, la più grande della difficoltà si intrufola nel rapporto duellante. La malattia sarà gestita tra alti e bassi, fughe e ritorni: Bignardi riesce a raccontarla in rapidi fotogrammi, tra il quotidiano e il pensato, che poi, sono il punto  di forza del suo esordio.

Il flusso di coscienza usato dall’autrice non sconfina quasi mai nell’emissione di una sentenza: chiama il lettore piuttosto a farlo ma è come se dicesse “fai attenzione, perché tra madre e figlia non esiste nessun libretto di istruzioni”.  Una scrittura veloce e “semplice” ma emozionante che riprende il rapporto più complesso come viene raccontato in La cucina color zafferano, di Yasmin Crowther o come ha scritto Elena Ferrante ne L’amore molesto.

Antonella De Biasi