Parlaci di te.

Sono nato a Montevarchi in Toscana, dove ancora oggi vivono i miei genitori. Poi ho vissuto in tanti altri posti: Firenze, Boston (la mia città del cuore), Madrid, Milano, Roma. Ma mi sento ancora un “montevarchino”, non solo perché noi toscani siamo legati ai nostri campanili, ma perché per dirla con Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Anche se “non è facile starci tranquillo”.

Amo la politica, che oggi faccio attivamente come senatore del Partito democratico, ma il mio lavoro è la ricerca scientifica e l’insegnamento universitario: sono professore di economia alla Bocconi. Sono sempre stato “amleticamente” diviso tra queste due vocazioni e penso che continuerò a esserlo. Quando faccio politica, mi manca la libertà intellettuale della ricerca. Quando faccio ricerca, mi manca la concretezza e l’afflato sociale della politica. Sono due lavori bellissimi, che richiedono competenze diverse e anche una forma mentis diversa. Quando faccio una cosa, cerco di non portarmi dietro i tic mentali dell’altra. Non sopporto gli intellettuali che giocano a fare i politici, o i politici che giocano a fare gli intellettuali. Un dentista quando entra in politica smette di fare otturazioni. Chi confonde il lavoro dell’intellettuale con quello del politico fa male tutti e due.

Da quanto tempo ti occupi di politica e in che consiste il tuo lavoro.

Ho iniziato a fare politica attiva nel 2001, ricoprendo vari ruoli nazionali e regionali nei Democratici di sinistra fino al 2005, ma poi mi sono dedicato al mio lavoro andando all’estero (come Ulisse per non cadere vittima del canto delle sirene, dovevo mettere un po’ di distanza tra me e la politica italiana per rafforzarmi professionalmente e recuperare la mia indipendenza). Sono tornato a fare politica come attività principale solo nel 2014, prima come consigliere economico del Presidente del consiglio, poi come Sottosegretario di stato alla Presidenza del consiglio e come componente della segreteria nazionale del Partito democratico, adesso come senatore della Repubblica. Ruoli molto diversi, che mi hanno dato tanto.

Quanto è stata importante la tua formazione per quello che fai oggi?

È stata fondamentale. Grazie al sostegno e all’insegnamento dei miei genitori, ho sempre avuto la libertà e la fortuna di inseguire le mie passioni, nello studio e nella vita, senza soluzione di continuità tra le due cose, che ancora oggi si rincorrono e si intrecciano tra loro.

I libri che ruolo hanno nella tua vita?

In tutte le case o gli uffici che ho avuto, i libri occupano il posto d’onore, sono i primi a cui va trovata una collocazione privilegiata. Non è solo una questione estetica, ma affettiva. Come capita al Mel Gibson di Ipotesi di complotto che non può fare a meno di comprare compulsivamente copie su copie de Il Giovane Holden, a seconda delle fasi della vita in cui mi trovo, ci sono libri che ritornano sempre e che devo rileggere o comprare in nuove edizioni. Tutti i libri di Milan Kundera, Il processo di Kafka, Barabba di Par Lagerkvist, La leggenda del santo bevitore di Joseph Roth, I due bugiardi di Singer, Se una notte d’inverno un viaggiatore di Calvino, Una questione privata di Fenoglio, The Unnamed di Joshua Ferris, Freedom di Jonathan Franzen, American Pastoral di Philip Roth, Il racconto di Natale di Auggie Wren di Paul Auster, la lista è lunga e non finisce qui.

In che modo sono stati importanti per il lavoro che fai?

Quando hai un’insaziabile curiosità di conoscere e capire i vissuti degli altri, una vita non basta. Allora, non potendone avere più di una (sigh), sono i libri che ti permettono di assorbire altri punti di vista, luoghi, storie, persone. E questa è una cosa che accomuna la ricerca e la politica: senza questa capacità di aprire la mente per abbracciare il mondo non puoi fare bene né l’una né l’altra.

C’è un libro in particolare che ha avuto un ruolo decisivo in quello che sei oggi?

La Democrazia in America di Tocqueville.

Ce ne vuoi parlare brevemente?

Ci sono due passaggi che mi danno i brividi ogni volta che li rileggo. Il primo è quello sul pericolo della dittatura della maggioranza sotto forma di conformismo del pensiero: “Sotto il governo di uno solo il dispotismo, per arrivare all’anima, colpiva grossolanamente il corpo; ma nelle repubbliche democratiche la tirannide non procede in questo modo: essa non si cura del corpo e va diritta all’anima. Il padrone non dice più: Voi penserete come me o morrete, ma dice: Voi siete liberi di non pensare come me; la vostra vita, i vostri beni, tutto vi resta; ma da questo momento voi siete stranieri fra noi”.

Il secondo passaggio è il finale: “Quando il mondo era pieno di uomini molto elevati e molto bassi, molto ricchi e molto poveri, molto colti e molto ignoranti, distoglievo gli occhi dai secondi per non fissare altro che i primi, e costoro rallegravano la mia vista; comprendo, però, che questo piacere nasceva da una mia debolezza. Non è così per l’Essere onnipotente ed eterno, il cui occhio abbraccia necessariamente le cose nel loro insieme e vede distintamente, per quanto in una stessa volta, tutto il genere umano e ciascun uomo. È naturale pensare che ciò che soddisfa maggiormente lo sguardo di questo creatore e di questo conservatore di uomini non sia l’eccezionale prosperità di alcuni, ma il maggior benessere di tutti: ciò che mi sembra una decadenza è dunque, ai suoi occhi, un progresso; quello che mi ferisce gli riesce gradito. L’uguaglianza è meno elevata forse, ma è più giusta; e in questo sta la sua grandezza e la sua bellezza”. L’inno più bello all’uguaglianza scritto da un aristocratico che vedeva il proprio mondo scomparire sotto i colpi dell’eguaglianza delle condizioni, ma che sapeva distinguere tra ferite personali e giudizio politico.

Intervista a cura di Angela Vecchione