Opera d’esordio di un giovane commediografo irlandese scritta nel 1995 a soli venticinque anni, (pare in otto giorni) La bella regina di Leenane, – la prima di una trilogia – ha ottenuto un gran successo di critica e di pubblico al Druid Theatre di Galway e al Royal Court Theatre di Londra successivamente in scena a Broadway per poi finalmente approdare sui palcoscenici italiani, grazie all’attenzione e alla sensibilità per la nuova drammaturgia internazionale del Teatro di Genova.

Presentata inizialmente, nel 1998, in forma di «mise en espace», la commedia è stata proposta dallo stabile genovese nel proprio cartellone della scorsa stagione, ed ha concluso la stagione di quest’anno (1999, ndr) con il debutto al Teatro Quirino di Roma.

Lo scalpore benevolo che ha suscitato nella critica internazionale fino ad essere considerata «una sorpresa assoluta… allo stesso tempo violentemente divertente, profondamente commovente, grottescamente macabra» (The Times, 1997) non deve trarci in inganno, non ci troviamo di fronte al solito meccanismo di un evento teatrale giovanile pompato ad arte, allevato nel grande pollaio del più grande sistema anglo-americano, almeno sicuramente non nella versione italiana, dove la regia intelligentemente curiosa di Valerio Binasco, ha ridato corpo e voce ad una scrittura drammaturgica lineare ma che, nel contempo azzarda nel voler trattare tematiche scomode e mai sopite. La commedia, ambientata in un interno familiare a Leenane, piccola cittadina sperduta tra i monti del Connemara (nord-ovest) racconta lo scontro generazionale di violenza e ignoranza tra la madre, – una tagliente, acida e aggressiva Gianna Piaz, – e la figlia quarantenne, una volitiva, energica, mai sconfitta Daniela Giordano, e il suo amore per Pato, il bravo Sergio Romano, ultimo possibile tentativo di fuga dall’angusto amato odiato focolare domestico. Aran Kian, che ha sostituito quindici giorni prima del debutto romano, l’attore Fulvio Mosè Maria Pepe, è Ray il fratello minore di Pato, che con violenta ironia, in un cadenzato slang giovanile è il menestrello, la voce di una realtà che si misura continuamente con il confine dell’immaginario, del tutto e possibile in cui gravitano gli altri personaggi. Forse è proprio questo il punto focale di tutto lo spettacolo: non solo lo scontro generazionale, ma anche lo scontro tra due culture diverse, quella irlandese e quella inglese, lo
scontro tra la realtà e la follia mai domata, la possibilità tutta da
inventare di, per una volta, «andare in paradiso, prima che il diavolo
si accorga che si è morti».

A questo punto potremmo aprire una serie di dibattiti e dei più svariati, invece vorrei fermare l’attenzione su un punto in particolare: nuovi autori, soprattutto i più giovani, affrontano e si misurano con il teatro, partendo dalle stesse tematiche, un interno familiare grottesco e tragico, microcosmo di un macrocosmo societario fallimentare. Da un punto di vista territoriale possiamo ampiamente spaziare, un codice epico e forse edipico mai sopito ha permesso così a Martin McDonagh di essere tradotto in ben 21 lingue diverse in 28 paesi del mondo. Altro caso teatrale, l’altrettanto giovane drammaturgo irlandese Corn McPherson autore di The Weir e rimanendo sempre sulle Isole, perché l’Irlanda altro non è che un’isola, ecco puntare il dito, per una volta benevolo, sulla nostra Sicilia, l’isola per eccellenza del Mediterraneo, terra che affonda le sue radici nell’epico, terra che ha saputo dare una voce ai grandi fermenti di rinnovamento culturale ed espressivo della scena novecentesca. Da questa terra strana e per chi desidera assurda, sono emerse nuove voci del teatro d’autore. Dal non più giovane Michele Ferriera (l’ultimo libro di teatro pubblicato Atti del Bradipo, Sellerio 1999 e assolutamente da leggere) – drammaturgo e regista di lieve poesia e grande spessore narrativo, ha fondato la scuola di teatro Teatés di Palermo, una speranza per le nuove generazioni, fino ad arrivare a parlare di Spiro Scimone, messinese, giovane autore vincitore del premio Idi autori nuovi nel 1995 con il testo Nunzio e poi nel 1997 il premio Ubu come nuovo autore. I primi due testi di Scimone Nunzio e Bar (la regia di Bar è di Valerio Binasco e ogni riferimento non è puramente casuale) scritti in dialetto messinese hanno girato per circa tre anni i teatri italiani, riscuotendo buon successo di critica, ma forse soprattutto di pubblico, ed ora Spiro Scimone ha debuttato con il suo primo testo in lingua italiana La Festa storia di un interno di famiglia, un giorno di festa e il desiderio sfrenato di rivincita bussa alla porta… ma di questo parleremo la prossima volta.

Maria Caterina Prezioso