Suad Amiry, per chi non la conoscesse, esordisce come scrittrice nel 2003, con Sharon e mia suocera, un libro nato dalla corrispondenza e-mail che intratteneva con i suoi amici, durante quell’esperienza che lei ama definire della “doppia occupazione”, ossia durante l’assedio israeliano del 2003 a Ramallah, che ha vissuto personalmente nel suo appartamento, e quello di sua suocera la quale, vivendo nella sua stessa casa durante l’occupazione israeliana della città per 42 lunghissimi giorni, l’ha assediata a sua volta! Dopo questo brillante ed ironico esordio letterario per Feltrinelli, è stato Alberto Rollo, l’allora direttore editoriale della casa editrice, a proporre alla Amiry di mettersi alla prova con un romanzo che raccontasse qualcosa di più della sua storia familiare. Come lui stesso ama sottolineare, già in alcuni passaggi di “Sharon e mia suocera”, infatti, si cominciava ad intravedere un mondo che andava assolutamente raccontato.

Suad Amiry si è fatta attendere un po’, pubblicando nel frattempo altri libri di successo e poi, nel 2016, ha dato alle stampe Damasco.

Damasco non è soltanto un romanzo. Quasi mai i romanzi sono soltanto romanzi.

Damasco è una grande storia famigliare, certo. Ma è anche l’affresco complesso di una società ricchissima di culture che oggi è difficilissimo intravedere sotto le macerie di una guerra che non smette e che non permette di sentire la potenza evocatrice di questa città e di quel Paese che una volta era la Grande Siria.

Essendo Suad Amiry un’architetta, prima ancora di essere una scrittrice, non stupisce che il romanzo Damasco si apra, quasi come se si aprisse una porta, sulla corte di una casa damascena. Si tratta di una fotografia, datata tra il 1898 e il 1914, che ci dà una prima idea di come dovesse essere la vita delle famiglie dei ricchi mercanti siriani dell’epoca. Un ricco mercante damasceno era il nonno della Amiry, Jiddo. Nel 1896, a trentaquattro anni, sposa la quattordicenne e silenziosa Teta, sua nonna, e la porta via dal suo paesino natale in Palestina, ‘Arrabeh, fino alla dimora Baroudi, il suo Palazzo, proprio nel centro della “elegante e fastosa Damasco”.

Il romanzo sin dalle prime battute ci mette a disposizione tutti i codici che ci serviranno per interpretare quest’altro mondo: il mondo arabo sotto l’Impero ottomano, l’Oriente, i suk con la loro frenesia commerciale, le dolcissime delizie e gli eccessi. Un mondo che non conosce sobrietà, dove tutto è monumentale, colorato, fastoso, numeroso e chiassoso. Un mondo dove le donne si sposano da ragazzine, dove si seguono rigorosamente costumi e tradizioni locali, come quella che prevede che “una donna maritata [possa] fare visita alla propria famiglia solo dopo aver dato al marito- o più precisamente ai suoceri- un figlio maschio”. Un mondo che considera il malocchio una cosa seria e, perciò, se quel primogenito maschio, Ahmad, muore è colpa della madre che “avrebbe dovuto mettergli al collo una pietra azzurra e degli amuleti per proteggerlo”. Un mondo dove i genitori portano il lutto “vestiti di nero dalla testa ai piedi, [ascoltando] in religioso silenzio lo sceicco che [recita] il Corano e […] [portando] per il resto dei loro giorni il nome [di Ahmad], chiamandosi rispettivamente Umm Ahmad e Abu Ahmad”, la madre e il padre di Ahmad.

Già alla terza pagina conosciamo poi tutti gli altri membri di questo mosaico familiare: zia Laila, zia Karimeh, zia Faizeh, zia Is’af. Tutte donne, tutte nate a distanza di due anni l’una dall’altra. Fino a zio Hakim, il secondo figlio maschio, arrivato ben quattordici anni dopo il matrimonio di Teta e Jiddo e l’unico sopravvissuto, considerando che gli altri due, lo zio Najeh e lo zio Sadiq, sarebbero morti entrambi molto giovani. Infine nasce nel 1922 Samia, la piccola della famiglia, futura madre di Suad Amiry.

Ecco una tipica famiglia araba, penseremo subito! Numerosissima, come non solo all’epoca esistevano, ma ancora oggi. E ci saremo già dimenticati tutti questi nomi e queste date e ci sembrerà di sentire solo il chiasso e la confusione di tanta gente, tutta stipata nella stessa casa, come quando li ritroviamo riuniti, a metà libro, intorno alla stessa tavolata di prelibatezze, durante la cosiddetta Grande Bouffe, ossia “i raduni [settimanali della famiglia] per il pranzo del venerdì [che] erano eterni, come Jiddo, vissuto fino quasi a cent’anni”.

La Amiry non fa convenevoli e, durante tutto il lungo raccontare, ci sciorina letteralmente i fatti più intimi della sua famiglia: gli adulteri (eh sì! Tutta la storia inizia con un adulterio…), i segreti, le scaramucce e i vizi, come la dipendenza dall’alcol dello “zio Successo”, del quale la Amiry ammette, con la solita ironia che la contraddistingue: “Non è mai stato chiaro se fosse diventato la pecora nera della famiglia a causa della sua stupidità e del suo alcolismo o se fosse diventato un alcolista perché era la pecora nera della famiglia”.

Insomma la Amiry fa entrare in maniera irruente nella storia, sin dalle primissime pagine, tutti i membri della sua famiglia, il loro modo di essere e il loro destino, ma allo stesso tempo accompagna il lettore piano piano lungo questa città che evoca ancora oggi, nonostante le macerie, meravigliosi sogni da Le Mille e una Notte.

“[…] Damasco era la città della fragranza, la città dei bazar coperti, la città con i palazzi più sontuosi. Era quella la Damasco che amava. Come avrebbe potuto dimenticare la meraviglia davanti ai colori e agli odori dei diversi mercati? Sebbene Damasco fosse chiamata “la città dei gelsomini”, gli effluvi mutavano mentre lei si aggirava tra le varietà e l’abbondanza di merci che inondavano chilometri e chilometri di bazar coperti: da quello di Midhat Pāshā, a pochi passi da Palazzo Baroudi risalendo la via, a quello delle spezie di Buzūriyye, del mercato della seta di al-Harīr al suk al-Khayyātīn- il mercato dei sarti o della merceria, dove si trovavano le migliori stoffe della città- , su su fino al suk el-Attarine, specializzato in profumi. Tuttavia non c’era mercato che, per grandiosità, potesse anche solo lontanamente competere con il suk al-Hamidiyah, una delle sette meraviglie del mondo, con gli eleganti soffitti di acciaio e le volte a botte che lo inondavano di una luce magica.”

Ma certamente mi sembra che la Amiry faccia di più, una cosa davvero molto importante per lei, come palestinese, e per noi lettori, scrivendo questo libro: ci fa compiere un viaggio non tanto e non solo sulle tracce della sua famiglia per tre generazioni, ma un viaggio della memoria che consente a lei di riflettere sulla propria stessa esistenza e a noi di riflettere sulle trasformazioni della Siria e della Palestina, due Paesi le cui storie e vicissitudini ci riguardano tutti e molto più di quanto immaginiamo.

L’urgenza di libri come questo sta nella loro capacità di riattivare nel mondo occidentale una memoria leale che renda giustizia alle “piccole storie”. Questi libri si propongono un’impresa non sempre facile, ossia “decostruire il deposito di millenni” e giungere ad una narrazione dall’interno, ovvero attraverso gli occhi e le voci dei protagonisti stessi di quel mondo dimenticato o mai veramente conosciuto.

Antonia Frascione

 

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