di Alberto Rollo

“Notte raminga e fuggitiva lanciata veloce lungo le strade d’Emilia a spolmonare quel che ho dentro, notte solitaria e vagabonda a pensierare in auto verso la prateria, lasciare che le storie riempiano la testa che così poi si riposa, come stare sulle piazze a spiare la gente che passeggia…” È l’attacco del segmento più celebre di Altri libertini, Viaggio. C’è quel “pensierare”, che ha fatto strada. E ha fatto strada quella forma di scrittura che non teme, senza essere mai piattamente calco del parlato, di stare dentro il tempo, le cose, l’accadere. E naturalmente non si trattava di un accadere qualsiasi: era un accadere che toccava la generazione più giovane dopo l’“invecchiamento” delle generazioni “politiche”, e aveva per altro a che fare con giovani che non avevano assolutamente voglia di stabilità, di conformismo, di valori ripristinati.  In quel “libertini” del titolo, piuttosto che l’evocazione di un settecento senza restrizioni morali, c’era la scossa diminutiva di una nuova forma di libertà. Alla rivoluzioni dei costumi il romanzo preferiva uno stare senza costumi.  “Pensierare in auto verso la prateria” allude a un pensiero storto e assorto che si affievolisce nella distanza, che cerca la visione, che corteggia l’abbandono. Ci furono molti ventenni dei primi anni ottanta che trovarono in Altri libertini un nuovo orizzonte e un nucleo che calamitava musica, fumetti, un sentore di disperazione alla ricerca di una lingua, e naturalmente di una forma.  Senza attribuire il non attribuibile, ci troviamo tuttavia in un sentimento punk. Il male come destino, una sofferenza divisa fra il grido e l’assopimento, un forte senso della comunità e una scarsa percezione del sociale. I personaggi di Tondelli bestemmiano senza Dio e senza rabbia.

La rabbia, non a caso, è tutta dentro quella lingua che lavora dentro l’accadere per dire di incontri senza futuro, di fragili ombre che si perdono, la città “stretta nella notte” – e non è un caso che nelle ultime revisioni Tondelli venne espungendo le bestemmie, i segni più evidenti delle abrasioni morali.

L’aderenza all’accadere segnò il suo sguardo, e, spesso, anche lo sguardo di quanti, dentro l’incubatoria gentilezza degli under 25, provarono, e spesso con esiti felicissimi, di percorrere quella strada. La prima Silvia Ballestra, per altro giovanissima, andò con sicurezza in questa direzione, senza distrazione, forte della sua provincia, forte dell’inquietudine quasi arrogante della marginalità e dell’esclusione.

Bologna, le Marche, il Piemonte, Torino.  Come un Bassani lisergico, Tondelli è ben consapevole che lo sgomento e la fragilità autodistruttiva appartengono allo sconforto della sterminata provincia italiana: la via Emilia (gucciniana) va oltre i confini regionali sia a sud che a Nord, e dove non trova pianura e notti senza luce, trova lungomari, il brulicare di malattie della percezione. Ed lì dove Tondelli diventa aggressivo, fuggitivo, delirante: “Ah, che due maroni questa Italia, io ci ho fame amico mio una gran fame di contrade e sentieroni, di ferrate, di binari, di laghetti, di frontiere e di autostrade, ok?” Nessuno come lui, dopo gli anni sessanta, ha sentito con più ansia e scatto liberatorio il viaggio, l’andare via, o ancor meglio il permanere dentro la condizione dell’andare. Le sue autobahn sono piste percorribile, ma innanzitutto contemplabili, in quanto epitomi di tutto l’andare.

L’impatto sui lettori fino a tutti gli anni novanta è sempre stato molto forte, e, ripeto, si è trattato di un impatto innanzitutto linguistico: la ricchezza di “ascolto”, i prestiti da aree diversissime, l’ibridazione di istituzione e wilderness hanno messo almeno due generazioni di scrittori giovani, di sentirsi autorizzati a scantonare dalla rigidità della prosa classica e al contempo dalla non meno rigida cerebralità delle neoavanguardie, o quanto restava di esse.

Altri libertini è un romanzo scheggiato, che si è guadagnato, proprio in quanto tale, una incontrovertibile canonicità.

D’altro canto è venuta meno la novità di quella forza ibridatrice che è la vera sostanza vitale del romanzo. La tecnologia ha spostato l’asse dell’ibridazione in un contesto che non è più soltanto legata all’attenzione alla pluralità delle forme e dei codici della comunicazione: la lingua si offre ibrida come un dato di fatto, non si dà possibilità di mescolare e dunque di creare benefico disordine.  E d’altro canto l’essere “rifiuti”, l’essere “maligni”, non sono più una virtù.  Anche lo scontro non è registrabile dove Tondelli ha situato la sua fame di mondo. Il lascito di Altri libertini è tuttavia presente, là dove la dimensione dell’immediato (e non dell’immediatezza) coincide con la registrazione di eventi (tanto per citare un altro grande bolognese). Che i suoi eroi siano marginali, delinquenti, travestiti, eroinomani è solo un segno del suo teatro sociale, un segno importante, ma periferico rispetto all’ansia di tutto comprendere, di tutto tenere assieme.  Quel teatro di sgangherati rifiuti ora è organizzato nella provincia globale di internet.  Ma ciò non toglie che la potenzialità di agire linguisticamente dentro i confini di questa nuova provincia è non meno alta che, nel 1979, alla stazione di Bologna. E allora Tondelli è lì, con la sua lingua prensile, con la lingua che ha bisogno, non meno delle tecnologiche avventure contemporanee, di vedere, di guardare, di occhi, anzi, per restare a Tondelli, di “cineocchi”, quel cineocchio che “amerà, oooohhh se amerà la fauna di questi scassati e tribolati anni miei, certo che l’amerà”.

Alberto Rollo