È  il 1982, un uomo e una donna scappano dal Libano chiusi nel cofano di un auto.

1992, dieci anni dopo, da un centro d’accoglienza in Germania, con i loro figli, l’uomo e la donna approdano ad un alloggio in un palazzo al centro di un quartiere con tanti altri immigrati come loro.

Al piano di sotto un amico e sua figlia, anche loro portati in terra straniera dallo stesso destino di disperazione.

È una vita tranquilla quella che finalmente vive la famiglia di Brahim El-Hourani, un lavoro, un appartamento dignitoso insieme a Rana, sua moglie, Samir e Alina, suoi figli.

Ma ci sono eventi che decidono insindacabilmente la direzione che prenderà la nostra vita, il clinamen, una deviazione spontanea ma non prevedibile, che arrivando inaspettata si arroga il diritto di spostare con una sterzata l’asse di rotazione delle nostre esistenze.

E così tutto cambia, senza possibilità di ribattere, di obiettare, rimane solo l’eventualità inopinabile di infilarsi in una strada, spesso senza uscita.

A Samir non resta altro che cercare di capire, cercare dentro e fuori di sé il bandolo di una matassa inesistente, cercare nel ricordo di un rapporto simbiotico le ragioni di un gesto così estremo ed insensato; la sua vita da quel momento scorrerà senza tempo sul ciglio di una voragine, aggettato verso un vuoto enorme che riempirà ogni attimo della sua esistenza.

Il tempo per me si è fermato quando papà è scomparso.

Pochi giorni prima della sua sparizione, mentre in un momento di vita familiare condiviso con Hakim e Yasmin, gli amici più cari, gli El-Hourani stavano guardando alcune diapositive. Improvvisamente nel cono di luce che si proietta sulla parete compare l’immagine di Brahim in un’ampia sala sotto la luce di un grande lampadario, davanti ad uno scalone col corrimano dorato, accanto ad un uomo in uniforme con una pistola alla cintura: sulla sinistra della camicia è ricamato un cedro al centro di un cerchio rosso. Di fronte a loro un fotografo attorniato da un capannello di persone, alcuni uomini e una donna.

La madre di Samir si irrigidisce improvvisamente chiedendo spiegazione al marito attonito del perché quella diapositiva fosse ancora lì.

Da quel momento Brahim non è più lo stesso, misterioso, furtivo si allontana da casa in maniera improvvisa per chiamare, a detta sua, la madre ancora in Libano.

Fino a che una sera dopo aver raccontato una delle sue straordinarie storie inventate sulla terra dei cedri scompare, lasciando a suo figlio, dietro le palpebre che cedono al sonno, l’ultima immagine di sé, in piedi sulla porta della stanza.

Il presente sparisce all’improvviso riempito da un’assenza smisurata: da quel momento la mancanza di suo padre sarà l’unica presenza che avrà per lui significato.

Ma una cosa qualche giorno prima a Samir in verità l’aveva lasciata: la diapositiva, chiusa in una scatolina di legno di cedro.

Quando parlava del Libano la voce gli si incrinava per la nostalgia, sembrava si riferisse ad un’amante di cui sentiva tanto la mancanza.

E il tempo scorre, ma per Samir non passa,: ricorda ogni volta che il padre gli aveva parlato del Libano, dell’amore per quella terra a cui aveva dovuto rinunciare, perché diventasse eredità legittima per i suoi figli, lo ius sanguinus che nulla poteva sottrargli, neanche la nascita in un luogo tanto lontano. Resta impigliato nei ricordi guardando ogni cosa solo ripensando all’ultima volta che l’aveva fatta col padre, ricusando anche la cittadinanza tedesca ottenuta dalla madre che a differenza sua aveva deciso di continuare a vivere.

Samir cambia fisionomia, ma non gli occhi, unico segno che rimane della loro somiglianza e anche il cambiamento fisico diventauna congiura ordita dal tempo che non solo gli aveva rubato il padre, ma faceva in modo che quasi più nulla ricordasse che era suo figlio. Sua sorella Alina cresce e invece, dimentica di un uomo scomparso quando era troppo piccola per ricordarsene, somiglia sempre di più a lui, come se fosse ingiusto, come se toccasse solo al fratello portare i segni di quel passaggio.

Ma respirare non è vivere: tutto scorre intorno ad un giovane rimasto impantanato a guardare un immagine muta, senza corrispondenza alcuna.

L’uomo in divisa  diventa per Samir il punto di partenza della ricerca di suo padre, spingendolo così a scavare nella storia tormentata di un paese, dove politica e religione hanno infuocato per anni lotte armate tra le numerose confessioni religiose che frammentavano il paese, alimentando conflitti interni e con i paesi vicini.

Solo l’amore per Yasmin spingerà Samir ad andare in Libano guidato da un diario lasciato da suo padre ad Hakim, in un viaggio che gli permetterà di ricominciare a vivere.

Sarà nella tormentata terra dei cedri tanto amata da suo padre che cambiando la prospettiva del suo sguardo troverà la risposta, e fermandosi ad osservare particolari sempre stati davanti ai suoi occhi ma mai notati prima, risolverà un mistero inaspettato.

”Esistono due tipi di addio: uno nella tristezza, perché ciò che lasciamo è troppo prezioso e importante per separarcene, e uno nella gioia, perché l’entusiasmo per ciò che ci aspetta è più forte della malinconia. La vita è piena di addii, che ogni volta hanno un sapore diverso. Per questo addio si usa anche al plurale. Al contrario ritorno si declina al singolare. Perché? Perché a casa si ritorna una volta sola. E dov’è casa? Dove c’è il cuore si dice. Si torna una sola volta a casa perché abbiamo un cuore solo, e una sola patria.

Ma non è così”

Come i rami di un albero non possono fare a meno delle proprie radici nonostante l’inevitabile distanza, così Pierre Jarawan nel suo romanzo Là dove crescono i cedri racconta attraverso immagini intense l’amore per le proprie origini, in una terra lontana  ma mai dimenticata.

Rosy Demarco

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